di Alfredo Morganti – 22 settembre 2016
Ha detto Renzi sull’Italicum: “Siamo totalmente disponibili a cambiare”. Si riferiva a una legge divenuta efficace meno di 90 giorni fa, la legge che ci avrebbero copiato tutti, la legge elettorale fine de mondo. Oggi, ancora intonsa, è stata dichiarata vecchia anzitempo, entrando anch’essa nel vortice del ‘cambiamento’. Fate caso a quest’ultima parola, perché è divenuta il mantra dei nostri tempi: tutto vogliono il cambiamento, tutti vogliono cambiare, anche i conservatori, e quelli forse più di tutti. ‘Cambiare’ persino le cose ancora non adoperate, ancora incartate, proprio come l’Italicum, per il quale i fautori avevano persino chiesto la fiducia, mettendo in gioco le sorti del governo.
La parola ‘cambiamento’ è in totale sintonia con un’altra parola, ‘decisione’. In fondo cosa chiede l’attuale esecutivo? La possibilità di decidere in fretta per poter cambiare. Dietro questa proposizione c’è tutto il governo Renzi. Ma anche tutta la sua debolezza. Perché oggi decisione e cambiamento è come se attivassero un vortice che si avviluppa su se stesso: Palazzo Chigi dice che ci vuole più cambiamento per decidere e più decisioni per cambiare. Una specie di spirale, ma talmente frenetica che alla fine essa diventa quasi autoreferenziale: si cambia e si decide senza più un referente preciso, di getto, prima ancora che il prodotto scada, anzi prima ancora che questo sia scartato! Il gesto di cambiare eccede le necessità effettive o quelle dovute, corrisponde a meri tatticismi o convenienze. In un certo senso sopravanza di valore persino la cosa stessa. Diventa cambiamento per il cambiamento (l’esempio è questo, di una legge intonsa che deve ‘cambiare’, senza più nessuno che la voglia così com’è, nemmeno, per assurdo, quelli che potrebbero trarne vantaggio), al punto che questa fenomenologia si ribalta e si scopre, riguardo alla realtà, per quel che davvero è, ossia conservazione. A forza di mettere in moto il vortice di cui sopra, a scopi tattici o quasi sempre mediatici o di consenso personale, si perde la presa sulla realtà, e questa svicola via, bellamente ignorata (e così conservata).
E così, mentre questa dialettica di cambiamento e decisione si rende autonoma, si astrae, genera mulinelli che si librano al di sopra della realtà e si stacca dalle cose, anche le cose iniziano a marciare di per se stesse. E tendono ovviamente a conservarsi, o a mutare soltanto per ragioni endogene, interne, che poi sono quelle di chi già comanda, di chi già detiene il potere (ché non si capisce perché dovrebbe cederne). Al culmine del ‘cambiamento’, quindi, non c’è una vera trasformazione degli assetti sociali o di potere, ma solo la conservazione, solo un frullìo di parole, una sequela di tatticismi, col mantenimento sostanziale dello stato di cose presente. E ciò mostra perché, di questi tempi, sarebbe consigliabile lasciar perdere il decisionismo, che decide, decide, decide freneticamente, ma spesso a vuoto, fuori di ogni sintonia con la cosa, talché il decisionismo si ribalta infine nel suo contrario, nella stasi, nella conservazione. Pensate il paradosso: vogliono una legge smart, decisionista, che la sera stessa del voto indichi ‘chi’ governa, per ritrovarsi, poi, a predicare un ‘cambiamento’ che si rivela, alla prova dei tatticismi e della frenesia decisionale, il meno efficace che si conosca. Guardate, quale controprova, i dati economici e la crescita zero. Qui davvero la realtà va per conto proprio rispetto al ‘metodo’ di cambiamento e alle soluzioni proposte dal governo e dalla BCE.
(I conservatori di una volta erano, almeno, più affascinanti e più acculturati di questi. E non dicevano di voler ‘cambiare’ alcunché.)


