La cultura umanistica che non c’è e l’autocoscienza affidata ai soli calcoli d’interesse

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 5 ottobre 2916

Mario Isnenghi, uno storico, accingendosi ad analizzare gli anni di inizio secolo e quelli della Grande Guerra, azzarda “un bilancio d’ordine letterario”. “Chi sono stati i primi a pensare l’Italia come nazione? Sono stati i letterati” scrive. “Per capire qualcosa dell’autocoscienza degli Italiani” aggiunge, si deve partire da un presupposto, questo: “gli uomini di lettere hanno pensato l’Italia” e “hanno cominciato a costruirla nella coscienza propria e degli altri”. Così Isnenghi. Portiamo il discorso all’oggi. A cosa assistiamo? A un lento declino della cultura umanistica, nel senso almeno della considerazione che se ne ha in termini prevalenti. Sul podio oggi c’è la tecnica, mentre la scienza è ritenuta l’unica chiave possibile per interpretare il mondo e per garantire, di converso, anche una carriera professionale. Le élite tendono a caratterizzarsi soprattutto come élite tecnocratiche: manager, scienziati, esperti gestionali. Il fenomeno dei cervelli in fuga è, in fondo, caratterizzato da un certo numero di brillanti ricercatori che, rigettati da una debole organizzazione, da scarse risorse e scarsi guadagni, tentano la fortuna professionale presso Atenei, Istituti di ricerca o imprese estere. Nello stesso tempo si giudica debole, corrotta, antiquata la nostra classe dirigente, incapace di sostenere il grande impegno verso la ‘modernizzazione’ ritenuto necessario al Paese (qui per ‘modernità’ si intende ancora la tecnica: infrastrutture fisiche, ricerca scientifica, innovazione tecnologica, semplificazione amministrativa e purtroppo anche riduzione del carattere ‘rappresentativo’ della democrazia).

Il contrasto è forte, insomma: Isnenghi usa la cultura umanistica per analizzare e compiere un bilancio del passaggio di secolo precedente (nonostante allora il mito del progresso tecnico fosse già poderoso). Oggi, invece, sono le élite tecniche, è la cultura scientifica, è l’economia finanziaria a fungere da parametro. Sono cambiati i tempi? No, è cambiata la considerazione, e soprattutto c’è stata un svolta ideologica potente. Il fatto vero, indubbio, è che con le lettere abbiamo costruito la coscienza nazionale; con la tecnica stiamo invece riunificando il mondo a onta delle identità, delle differenze, delle autocoscienze. Il prevalere della ideologia della tecnica mette in un angolo la politica democratica, a cui da molti decenni è stato affidato il compito di unificare, mediare, rappresentare piccole e grandi comunità, gestendo la ricchezza dei conflitti di opinioni e di classe. La cultura umanistica era assolutamente necessaria a questo disegno, dove il conflitto e la mediazione, il sociale e lo Stato reclamavano entrambi un ruolo da protagonisti. E dove la cultura era un potente fattore di riconoscimento, di mediazione, di identità. L’autocoscienza, la consapevolezza di sé e del proprio destino storico, erano contenuti nelle opere degli scrittori e nelle loro riflessioni, che venivano dibattute e divenivano patrimonio nazionale. Lo spregio verso la cultura umanistica, ridotta a ornamento passatista per poveri sfigati, oggi paga pegno e mina i contrafforti della cultura nazionale (ma anche dello spirito europeo, si badi, ridotto a calcolo monetario e al dominio delle oligarchie e delle élite tecnocratiche). In fondo, se ci pensate, Ciampi era laureato in lettere classiche. Oggi, invece, se non hai un master in economia o statistica presso qualche prestigioso istituto non sei nessuno. E forse pure lo rimani, nessuno. Ed è per questo che non siamo più nessuno, anche in generale.

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