I cerchiobottisti referendari e il bar della politica

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 12 ottobre 2016

Non mancano mai. Sono una specie sempreviva. Anche quando si tratta di dire Sì o No, i cerchiobottisti non desistono dalla loro missione di sferrare un colpo di qua e uno di là. Oggi Luciano Fontana sul Corsera ce ne fornisce un nuovo esempio. Scrive che i toni della campagna referendaria sono esagerati, che si dovrebbe essere più ‘illuministi’ e badare meglio alle ragioni intrinseche del Sì e del No. Senza troppa caciara. Sbagliano entrambi i fronti in competizione, lui dice, e nella stessa misura pare di capire. Però aggiunge che i toni si sono accesi quando “i cambiamenti costituzionali sono stati presentati come la «madre di tutte le riforme». Quella che avrebbe rivoluzionato il Paese e deciso il destino del governo e dell’attuale Presidente del Consiglio”. Fontana vuol dire, forse, che qualcuno ha personalizzato la contesa e l’ha presentata come l’ultima chance per il nostro Paese? E che da quel momento tutto è andato a rotoli? Vuol dire che stiamo litigando come pazzi sul nulla? Su di una “riforma costituzionale imperfetta, con alcuni aspetti positivi e soluzioni a volte pasticciate”, come scrive lui stesso sul Corriere? Che insomma questo non è il “giudizio di Dio” ma un mero quesito referendario? Che ci si sbraccia su un testo costituzionale pasticciato?

Be’, è semplice ribattere che è stato il premier a personalizzare la contesa. E che è stato lo stesso premier a dirci per primo che questa è l’ultima chance, dopo di che è la fine. Questo tono apocalittico (forse suggerito dal guru, forse no) ha una familiarità e un’unica matrice nella retorica delle ‘riforme’, del ‘ci metto la faccia’, ‘se perdo me ne vado’, nel tono aggressivo e insieme tragico e ultimativo che si coglie in controluce in ogni dichiarazione di area governativa. È come se mettessero il Paese nella condizione di non poter scegliere, di non avere alternative: se dire ‘No’ è la morte civile, l’apocalissi, perché scegliere? La retorica referendaria in fondo è solo l’epifenomeno di una ideologia di fondo, quella per cui: “Il congresso del Pd si terrà entro l’8 dicembre del 2017 – dice Renzi – e chi avrà un voto in meno farà opposizione, chi avrà un voto in più vincerà”. Un voto in più, un voto in meno. Questo il discrimine. Tutto è ridotto al display dello stadio, dove c’è il risultato e dove ci sono i marcatori. E come nel calcio moderno conta solo il risultato (magari ottenuto truffando), così nel politico renziano ci sono solo numeretti, alzate di mano, conteggi. Non vale il bel gioco, quello che invoca anche Fontana nel suo editoriale. Non conta il ‘terzo tempo’, né il fair play, tantomeno il gesto cavalleresco di buttar fuori la palla se l’avversario è a terra infortunato. Per Renzi conta solo un gol in più, magari al 95’, magari per una fortunosa autorete, magari perché la palla non era nemmeno entrata oppure è rimbalzata indosso all’arbitro ed entrata in porta nello sgomento del portiere.

Vincere e vinceremo, appunto. Quando invece questo Paese di tutto ha bisogno meno che del singolo, individuale, ridicolo gol in più. Di tutto ha bisogno meno che di premi maggioritari che trasformano Davide 25% in Golia 55% lasciandolo comunque Davide 25% in rapporto al Paese. Di tutto ha bisogno meno che di un bulletto rottamatore (ci pensano già i terremoti, e i disagi, e le miserie e l’incultura a rottamare le nostre esistenze e la nostra percezione della politica). Aveva ragione Berlinguer a chiedere un ‘compromesso storico’, un’unità di fondo, strategica delle forze popolari non la loro artificiosa divisione (il 51%, un voto in più con premio), e aveva ragione Aldo Moro a dire che “si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”. Voleva dire che in politica non ci sono scorciatoie, semplificazioni, passaggi smart, salti in avanti, accelerazioni astratte. Non si tratta di vincere e perdere, comunque e in tutte le forme ammissibili. Il ‘nuovo’ non è oggi, ma è nel caso domani, dopodomani, forse. Oggi c’è solo la lotta, il confronto, il dialogo, la mediazione, l’ascolto, l’intesa, la comprensione di un campo largo, che non esclude divisioni e conte finali, ma mai di un voto in più, di un secco sì contro un no. La fatica di esistere, in fondo, è la fatica di comprenderci, e di dividerci non prima di esserci compresi. Renzi questo non lo sa, non lo sanno i suoi scherani, non lo sa un bel pezzo di Italia. Si tratta di scegliere tra questa visione berlingueriana, morotea (contro cui si scatenò la più grande controffensiva politica del dopoguerra) e quella da bar dello sport renziana. Altro che cerchiobottismo. Ha fatto più danni alla politica il bar dello sport che tangentopoli. Ed è tutto dire.

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