Jobs act: ”Un Disastro, ma si sapeva”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Roberto Santilli
Fonte: Abruzzo web
Url fonte: http://www.abruzzoweb.it/contenuti/jobs-act-un-disastro-ma-si-sapeva--il-giuslavorista-stronca-la-riforma/591706-22/

di Roberto Santilli – 24 febbraio 2016

Un anno fa, il giudizio sul Jobs act era stato duro.

Oggi lo è ancora di più.

Per l’avvocato torinese Vincenzo Martino, tra l’altro vicepresidente degli Avvocati giuslavoristi italiani  la riforma del diritto del lavoro attuata dal governo di Matteo Renzi “continua ad essere assolutamente nociva. Anche se, nel settore di cui occupo, non ho ancora incontrato casi di contenzioso, ma ho visto, per quel che riguarda ad esempio il controllo a distanza del lavoratore, diversi documenti di policy aziendali che prevedono forme molto penetranti di controllo sulla corrispondenza e sugli altri strumenti di lavoro in generale”.

Ed è proprio da questo che l’analisi di Martino comincia, anzi, si rinnova: in sintesi, “il lavoratore resta inerme di fronte all’azienda, allo strapotere dell’impresa”.

In pratica, “importanti aziende, in base alla nuova normativa, rendono edotto il dipendente di linee di condotta che presuppongono la possibile adozione di provvedimenti disciplinari in caso di violazioni, attraverso il controllo a distanza anche sofisticato sugli strumenti di lavoro”.

Un modo, voce di una parte di popolo, che servirebbe semplicemente a stanare i fannulloni, ma in assenza di un accordo sindacale “si tratta di un controllo estremamente pervasivo nella quotidianità del lavoratore. In questo caso, uno dei presidi fondamentali dello Statuto dei lavoratori viene meno”.

Senza dimenticare una raccomandazione del Consiglio d’Europa, che vieta il controllo su attività e comportamenti dei dipendenti,

Per non parlare, poi, dell’introduzione del demansionamento, vietato dall’ordinamento italiano, che permetterà all’azienda di destinare il lavoratore a una mansione inferiore.

“In realtà, esistono metodi meno invasivi per controllare i lavoratori”, chiosa al riguardo Martino.

Un altro tasto dolente è poi il fattore incentivo della decontribuzione per aumentare l’occupazione, “metodo che – per l’esperto – di fatto la droga”.

Finiti gli incentivi, insomma, “scatteranno i licenziamenti di massa, o quantomeno assisteremo a uno stallo sulle assunzioni a tempo indeterminato”.

In questo caso, spiega, “vanno fatte due premesse. La prima, è che i contratti a tempo indeterminato lo sono solo formalmente, perché in realtà tutti i contratti a tutele crescenti, cioè tutti i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati dopo il 7 marzo del 2015, sono privi delle garanzie dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Quindi, il datore di lavoro può recedere pagando una indennità molto bassa”.

“La seconda – continua Martino – è che l’elevato umero di assunzioni a tempo indeterminato nel 2015 rappresenta in gran parte conversioni di contratti a progetto e altre forme, per poter godere degli incentivi. Ci sono anche delle assunzioni in più, ma già da quest’anno gli incentivi sono stati dimezzati in finanziaria. Quando cesseranno c’è da prevedere un crollo delle assunzioni”.

In aggiunta, “nonostante gli sforzi del governo, rimane molto forte la richiesta di assunzioni a tempo determinato, anche grazie al fatto che sono state completamente liberalizzate col decreto Poletti, cosa che ha prodotto un boom del lavoro accessorio pagato con i voucher. Questo significa che, nonostante gli incentivi, la forma del contratto a tempo indeterminato non è quella comune del rapporto come si era proposto il legislatore, ma è solo una delle modalità tra le possibili lasciate alla discrezionalità dell’impresa”.

Un modello, insomma, che “fin quando saranno convenienti i nuovi contratti a tempo indeterminato, rimarrà competitivo, ma con la fine o il taglio degli incentivi, il datore di lavoro avrà mano libera nell’assumere a termine, con forme addirittura più precarie come il lavoro accessorio”.

Altro capitolo dell’analisi di Martino riguarda le collaborazioni coordinate e continuative senza progetto, “che avranno molto spazio e che esploderanno soprattutto per le mansioni più qualificate, cioè in buona sostanza false Partite Iva, o comunque collaborazioni autonome fuori dai vincoli previsti dalla legge Biagi che abolì il famoso Co.co.co. e lo trasformò inserendo il vincolo del progetto, facendolo diventare Co.co.pro.; il Jobs act, in pratica, ha tolto il requisito del progetto, quindi si fa un salto indietro, alle collaborazioni coordinate e continuative”.

Non va dimenticato, secondo l’avvocato, che il Jobs act “non ha nulla a che vedere con il contratto a tutele crescenti di matrice europea, come il contratto unico di ingresso che prevede che anche dopo tre anni, quindi un tempo medio-lungo, il lavoratore assunto con quella forma raggiunga la pienezza delle tutele come i colleghi assunti prima di lui”.

Cosa che non avviene nel caso italiano, che, invece, “non vede crescere nulla, a parte la misura dell’indennizzo in base dell’anzianità. Ma è ovvio che il lavoratore appena assunto, non potrà mai raggiungere la pienezza delle tutele con la possibilità di avere il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo”.

Dunque, quello italiano venuto fuori dal “cilindro” del Jobs act “non è affatto un contratto a tutele crescenti”.

L’ultimo passaggio, Martino lo riserva ancora alla questione dei licenziamenti, che, sottolinea, “non possono essere privi di giusta causa o giustificato motivo, come del resto prevedono le norme europee e l’ordinamento italiano. Ma, soprattutto, le sanzioni devono essere effettive e dissuasive, al contrario di quanto sancito nel Jobs act perché gli incentivi sono bassi, perché ci si può liberare di un lavoratore dipendente nei primi tre anni con quattro mensilità di risarcimento, fino a un massimo di 24 dopo 12 anni di rapporto, arco temporale che chi è stato assunto a partire dal 7 marzo del 2015 rischia di non conoscere mai”.

 

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