di Alfredo Morganti – 9 maggio 2017
Quel che è accaduto in questi anni è presto detto, senza nemmeno semplificare troppo: le classi dirigenti sono riuscite a convincere il ‘popolo’ che la ‘politica’ non serve a nulla, che è un intralcio e che, dunque, è meglio disfarsene. Detto fatto. La sfida francese tra populisti e tecnocrati questo ci racconta, che la politica intesa come dibattito pubblico, confronto istituzionale, mediazione, progetto di lunga lena, sistema dei partiti e nobiltà delle istituzioni rappresentative non c’è più o quasi, ed è divenuta comunque residuale. Oggi la ‘politica’ che tira è mediatica, è personale, è leaderistica, è priva di partiti storici a vantaggio di comitati ad personam, salta ogni mediazione istituzionale e si presenta nuda e cruda al Palazzo, da dove tentare di dirigere il mondo a mani nude oppure col sostegno di chi possiede le risorse e controlla la situazione. La disintermediazione è sulla linea del traguardo, solo che la mediazione era quella politica e istituzionale. Il populismo, in quanto rapporto diretto tra Capo e Popolo (QUESTO è il populismo nel suo nucleo) fuori di ogni ‘gioco’ parlamentare, è vincente sia sul versante di destra sia su quello tecnocratico-liberale. Gioca con se stesso, potremmo dire, esprimendo solo gradi di minacciosità e spietatezza diversi. L’Europa che amiamo di meno, quella dei conti e delle banche, prevale su quella che invece sognavamo, dell’umanità e della solidarietà. I ‘padroni’, per capirci, hanno deciso che era meglio far da soli, e adesso non cercano nemmeno più di mascherarsi da liberal. Non hanno più remore a riguardo.
I partiti, dopo il loro tramonto, oggi si fanno e si disfano al volo, sono divenuti ‘flessibili’. Ieri Veltroni riconosceva a Macron il merito di aver fondato un suo ‘movimento’ e di averlo portato alla vittoria in quattro e quattr’otto. Ormai siamo nell’epoca dei partiti ‘acronimi’: ‘En Marche!’ ha le stesse iniziali del suo fondatore (Emmanuel Macron). Se il partito aziendale aveva una sua consistenza ‘plastificata’, e quello personale ruotava attorno a un Capo ma ancora lo distingueva dal resto degli iscritti, quello acronimo non distingue più, ed esprime anzi una totale immedesimazione, come un documento di identità, come il bagno di casa propria, come la propria vestaglia da camera. Io sono io, diremmo a proposito. Una ‘tautologia’ dove E.M. se la canta e se la suona, e nelle riunioni esprime sempre un totale accordo con se stesso. Il partito cessa persino di essere ‘parte’ di qualcosa di più grande, per divenire ‘totalità’, autocoscienza. L’in sé e per sé realizzato. E simboleggia in termini concretissima la fine della ‘mediazione’: io sono io, io penso e dico quel che penso, lo dico a me stesso, al punto che non c’è nemmeno bisogno di dirlo. La politica diventa espressione e intuizione estetica, ben più che rozza comunicazione, che ancora prevedeva un emittente e un ricevente, uno spazio e un canale di contatto tra i due, nonché un codice condiviso. In questo ‘schiacciamento’, le istituzioni diventano piccole piccole, e forse inutili. L’uomo da solo è pronto a manifestarsi al popolo e a ‘reggere’ da sé le sorti del Paese, sempre che i gufi non rompano le scatole come loro solito. Ecco, secondo me in Italia siamo ormai pronti per questo passaggio. E l’acronimo già lo immagino.


