L’élite che diventa popolo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 16 luglio 2018

Spartirsi i resti dei 450 poveracci che hanno tentato il Mediterraneo su una bagnarola pur di arrivare in Italia, è spacciata ormai per grande operazione politica. Cinquanta andranno di qua e cinquanta di là, pare, fino a successiva smentita. Smembrati come un pacco Amazon, sminuzzati e ripartiti secondo principi ragionieristici. Vite umane ridotte a mere quantità, ecco il senso di quanto si discute in Europa attorno al destino di un manipolo di migranti calcati in 450 su una carretta del mare. È una dialettica delle quantità che non diverrà mai dialettica della qualità, ossia rimodellamento degli squilibri economici tra emisferi e aree geografiche, potenziamento dei livelli di sussistenza di interi popoli, iniziativa contro le guerre, le malattie, le carestie, i disastri ecologici. E sinché la politica è solo quantità rimarrà quel che è, ossia piccola politica, opaca amministrazione, cortissimo respiro.

Detto ciò, siamo certi che il rapporto tra élite e ‘popolo’ sia davvero quel che appare? Siamo certi che classi dirigenti purissime e distanti, quelle di Davos per dire, ma anche i governi europei, sappiano dirigere i processi globali con la dovuta sapienza? Siamo sicuri che i grandi temi e le grandi questioni mondiali appaiano affrontati in modo adeguato rispetto alle domande che sollevano? Ecco il punto, controcorrente se volete. In questi anni non c’è stato, a livello politico e culturale, quel che è avvenuto a livello economico, ossia non c’è stato un potenziamento effettivo della capacità di governo e controllo delle grandi dinamiche da parte delle élite. Semmai il contrario. Le classi dirigenti, abilissime ad avviare la rivincita di classe chiamata neoliberismo, abilissime a far tornare i conti dei loro bilanci aziendali, abilissime a distogliere risorse al fisco, si sono dimostrate inette per tutto il resto, soprattutto a livello politico e sociale. Accrescevano il divario della ricchezza, ma assottigliavano quello del sapere: erano élite quando si trattava di denaro, ma sembravano ‘popolo’ quando si doveva davvero governare il mondo. L’uno è connesso all’altro, peraltro: per produrre ricchezza hanno accresciuto gli squilibri economici, per essere élite economiche hanno ‘schematizzato’ le politiche di governo, le hanno ridotte a ‘forza’ pura, a litigio, a un diluvio di tweet, sono divenute ‘popolo’, ne hanno adottato l’impulsività, la semplicità argomentativa, il linguaggio tosto. Oggi un governante qualsiasi parla come un ‘popolano’ qualsiasi. Si confondono. Pensate a Salvini e al suo linguaggio da bar dello sport. Non solo lui. Pensate alla rozzezza di Trump. Pensate al piattume culturale di altri, sinistra compresa. Primi in economia, almeno in quanto a capacità di accumulazione squilibrata delle ricchezze, ma ultimi in politica e del tutto inetti a livello culturale: questa la valutazione corretta da dare.

Ecco perché la qualità non diventa mai qualità. Ecco perché 450 vite umane diventano un ‘corpo’ collettivo spartibile in ‘quote’. Ecco perché il bios diventa mero ‘parametro vitale’, in pratica sostanza inorganica. Il populismo, allora, non è soltanto l’utopia della riduzione a nulla dei corpi intermedi e dei livelli socio-culturali (un Capo e un Popolo e basta) ma, soprattutto, quantificazione della qualità. Economia che disprezza la politica, numeri che sommergono tragedie e sofferenza, indifferenza totale verso tutto ciò che non è riducibile a contrassegno numerico. Quantità che è penetrata ovunque, e che ha reso gli esami universitari, per dire, liste di crocette da mettere in calce ai quesiti. Che ha tramutato i libri in dispense. Che impedisce alla élite divenuta popolo di cogliere dettagli, differenze, toni, intensità, grida, voci, lamenti, sofferenze, vita, riducendo tutto a un’operazione di divisione dell’indivisibile e di quote da spostare qui o là come fagotti, da questo capitolo di bilancio a un altro, come farebbero dei ragionieri. L’élite che diventa ‘populisticamente’ popolo, che crea una sorta di cortocircuito tra sé e l’altro, è quanto di peggio possa politicamente accaderci. Soprattutto in un mondo grande e terribile come il nostro.

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