Dei minimi sistemi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 17 luglio 2018

Per quanto incuriosito dai particolari (essenza d’ogni cosa) sono sempre stato incline all’astrattezza. Un difetto tipico degli iniziati di formazione marxista. Quando ero nella segreteria del Pds misi a punto un progetto di pianificazione strategica in materia di organizzazione territoriale, anche corredato da mappe molto dettagliate. Il documento fu persino votato dal Comitato Federale ma non trovò alcuna applicazione. Infatti l’organizzazione la facevano altri, ma senza più le sacre premure del passato. Una sciatta manutenzione, più che altro, unita a una certa tendenza a fare delle unità di base il supporto per percorsi di carriera, individuali e di gruppo. Del resto quando una organizzazione comincia a parlare ossessivamente di sè stessa, per essere ‘riformata’, se non ‘superata’ (e fu il caso del Pci degli ’80), vuol dire che ha perso il gusto di sè, cioè di migliorarsi e manutenersi con entusiasmo. Che ha perso la linfa, facendosi prendere dall’accidia.
Ho memoria di quando l’organizzazione la si faceva veramente. Ricordo la cura religiosa e l’orgoglio con la quale mio padre faceva tessere, raccoglieva i bollini e si applicava alla cura del patrimonio. Per i fondatori del ‘partito nuovo’, operai e contadini, l’organizzazione era Tutto. La loro Impresa.

Chiamando il ceto politico ad avere affetto per la Ditta, Bersani intendeva riesumare qualcosa delle antiche virtù. Ma fu frainteso. Anzi si fraintese, sguarnendo le difese contro una folla di predatori e irretendo la parte sana del Pd in una malintesa quanto subalterna cultura unitarista. L’errore della sinistra Pd, pur se umanamente comprensibile (Bersani era stato un interprete autentico dell’Ulivismo ed era stato Leader di un Pd nel cui progetto credeva) è stato di non avere saputo ‘organizzare’ una vera scissione. Non importa se agita o subita, comunque necessariamente ‘organizzata’. Di modo che la rottura fosse una cosa seria, cioè non dannosa per sè.

Tutta l’avventura di Art. 1 è stata confusa e improvvisata. Un radunarsi dopo un prolungato stillicidio di ‘tutti a casa’. Sin da subito si è rinunciato a sfruttare i refoli di un momentaneo entusiasmo promuovendo un serio tesseramento. Se si fosse provveduto a distribuire dieci tessere per fare proselitismo ad ognuno dei militanti si sarebbero raggiunti almeno 50.000 aderenti in poco tempo. Ma si preferì traccheggiare nelle ambiguità del ‘movimento’ non ancora partito. Il tentativo di riesumare un micro-ulivo sotto l’egida del Pisapia ‘federatore’ ha dissipato energie in una irridente comicità. Ancora adesso si è arrivati alle assemblee di lancio del processo costituente dopo che si è lasciata macerare in una lunga afasia quel tanto di organizzazione che era stata messa in piedi. Come risultato gli iscritti che si apprestano al take off sono dimezzati.Si convocano le assemblee (quella nazionale in particolare) in giorni impossibili e in luoghi a bell’apposta ardui da raggiungere. Quasi che l’unica arte organizzativa rimasta sia quella della scomoda inopportunità . Non c’era, e non c’è, un piano di finanziamento. Non solo – noblesse oblige – non si è portato via nulla dal Pd, se non sè stessi, ma non si è ancora riusciti a costringere quelle faine che presiedono al patrimonio Pci a mollare qualcosa di degno. In alternativa invece di svaligiare qualcosa si son fatti discorsi. A Bologna con ancora tante case del popolo lasciate alle ortiche ancora ci si raduna in un ufficetto al Candilejas. nell’estrema periferia, quando quasi tutti gli iscritti, puro cero medio riflessivo, abitano in centro. Neanche un luogo di ritrovo, un bar, una cucina, dove lenire la malinconia con un po’ di vita sociale, fra chiacchere, bevute, gozzoviglie, iniziative politiche, tornei di boccette e serate filuzzi&rock and roll. Hai voglia la funzione di ‘integrazione sociale’! Qui neppure si è capaci di mettere in piedi quattro mura entro le quali reintegrarci fra di noi.

In compenso le assemblee sono ridondanti di retorica partecipazionistica come se davvero un nuovo partito di massa, democratico e pluralista, fosse a portata di mano. O, peggio, se davvero lo fossimo. Si discetta di ‘mediazione politica’, di reti associative. di riconnessione sentimentale e reinsediamento sociale nelle periferie territoriali. Con tanto di divisione fra l’elogio dello spontaneismo ‘leggero’ e lo spirito di ‘apparato’. Ancora liquidità versus solidità…. Con qualcuno che si immagina monocrate del partito che non c’è. Un Prodi in sedicesimo. Un linguaggio retrò, palesemente distonico rispetto alla realtà, che è radicalmente mutata. Il sogno del ritorno a qualcosa fra la prima e la seconda repubblica quando già siamo alla materialità sistemica di una terza, forse l’ultima. Nel mentre non si disdegnano, of course, le tresche competitive per il posizionamento in organi di coordinamento così pletorici da sorpassare la base dei rappresentati. Rassomigliamo già così tanto al grottesco burocatismo ‘rivoluzionario’ delle piccole formazioni. Come Sel, Si e persino Potere al Popolo. Solo più compassati invece che effervescenti. Non che il burocratismo non abbia una sua apprezzabile necessità, ma solo se si applica a corpi vasti e complessi. Nulla è più ridicolo e insopportabile (almeno per chi scrive) del burocratismo discutidoro, metodologista e piurale, di una setta.

Il modello di partito e di organizzazione ? Ve lo dico adesso. Per il qui ed ora della Sinistra per come si è ridotta. Inutile immaginarsi quello che non si è. Siamo un piccolo corpo, come più volte ho scritto: una retroguardia circoscritta di massa senza un seguito. Ora le uniche chances di sopravvivenza (e crescita) che ha un piccolo corpo isolato circondato da un ambiente ostile sono la concentrazione della forza, l’immediatezza semplificata del principio di gerarchia e l’agile rapidità del movimento. Il tutto nutrito dall’ansia spasmodica di sopravvivere in un mondo che ti vuole morto. Concentrarsi in pochi punti e spingere su poche issues qualificate. Usando qualsiasi mezzo e ogni tattica alla bisogna, anche virtuale, comunque spettacolare, per dimostrare che ci siamo a quelli che ci interessano. Destando la loro attenzione. Dirò una bestemmia: il partito radicale pannelliano degli ’80. Con un’anima secchiana e cossuttiana. Un ardito esperimento. In altri tempi mi faceva schifo, ma meglio una orrenda utilità che una bellezza assolutamente improbabile.

Buon lavoro compagni costituenti che vi radunerete al The Church Village evitando lo sciopero dei treni (coincidenza emblematica dei buoni rapporti coi sindacati) in non so quale cazzo di circoscrizione oltre-Tevere. E che tra voi, in quella sovrabbondanza di discussant e arruffaconvegnisti, possa emergere una schiatta di alacri e impavidi organizzatori. Comunque sia io sarò comunque con voi. Per me non chiedo molto. Basta che mi garantiate una piccola casa del popolo dove giocare a Goriziana. .

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Commenti

Daniel KP Romeo Analisi accurata come una foto. E che bello sentire chiaramente cose come
“….non avere saputo ‘organizzare’ una vera scissione. Non importa se agita o subita, comunque necessariamente ‘organizzata’. Di modo che la rottura fosse una cosa seria, cioè non dannosa per sè.
Tutta l’avventura di Art. 1 è stata confusa e improvvisata…”
da qualcuno piu’ autorevole di me. Ogni volta che lo scrivo mi arrivano bordate da bersaniani che manco i grillini.

Lanfranco Turci Una analisi perfetta. Vorrei sbagliare ma vedo un micro ex apparato che farà l’ombra critica del PD.

Nikolaj Kurbov Interessante. Quello che manca è evocare che la cultura organizzativa del PCI era alimentata dal carattere rivoluzionario del partito, venuto definitivamente meno il quale, dopo la Bolognina, la “sciatta manutenzione” dell’apparato (del cui funzionamento, però, gli iscritti di base dei DS sono rimasti grottescamente orgogliosi fino alle primarie del 2007, perché era proprio la “continuità dell’organizzazione”, poi infranta con la nascita dal PD, a tenerli compatti) è stata l’unico feticcio in grado di traghettare un pezzo in costante calo numerico dei vecchi militanti verso il “nuovo”, di cui quelli che oggi sono i principali volti di MPD (e quindi di LeU) sono stati per vent’anni i più solerti assertori. Quel “nuovo”, che nel commento viene evocato come “ulivismo”, non è stato altro che il candidarsi a gestire la fase di ristrutturazione dell’economia italiana in funzione della nuova divisione internazionale del lavoro partorita dalla fine della Guerra Fredda, in cambio dell’ottenimento della chiave delle stanze del governo. Di lì il saggio del 1995 di D’Alema sul “paese normale”, poi la Bicamerale, le grandi privatizzazioni, il pacchetto Treu, la partecipazione criminale alle guerre balcaniche e tutto quello che ne è conseguito. Le teorizzazioni anni ’90 sul cosiddetto “partito liquido” (di cui da ragazzino militante del PdCI ho potuto vedere di persona l’impatto sulla struttura organizzativa dei DS) ne sono state un corollario necessario e hanno alterato irreversibilmente la cultura politica della sinistra italiana. Le classi dominanti hanno gradito, ma la gratitudine non fa parte dei loro tratti costitutivi. Sicché oggi LeU non può candidarsi ad altro che ad essere il ramo cadetto degli eredi di quella stagione (il primogenito è chiaramente Renzi), e proprio i mezzi materiali e quel pezzo di mondo cooperativo, di fondazioni e di burocrazia sindacale che permettono al progetto di avere il residuo di blocco sociale per restare a galla, sono ciò che ne rende assolutamente impossibile lo sviluppo.

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