di Alfredo Morganti – 29 agosto 2018
Walter Veltroni oggi su Repubblica è lapidario: Salvini non incarna alcun populismo, quanto impersona la destra, la destra vera. L’ex segretario del Pd non ammette repliche sul punto. Io penso invece che siamo di fronte proprio a un pervicace populismo di destra. I caratteri ci sono tutti e spiegherò perché. Fatemi dire, però, perché Veltroni sia restio sul punto. Perché l’esperienza del PD nasce in forme populistiche, si colloca sul solco del berlusconismo, spiana la strada a chi verrà poi, ossia i populisti che oggi invadono le istituzioni e i media. Cos’è il populismo, in fondo? La forma più alta di disintermediazione politica, quella che vuole il cortocircuito Capo-Popolo, quella della verticalizzazione totale del potere. Illiberale come esito possibile.
Cosa rivendica Veltroni, d’altronde, anche in questo pezzo? La necessità di una democrazia che decida, veloce, efficace, che si muova nei tempi più brevi possibili. Ma c’è tutta una scuola di pensiero traversale al sistema politico che ha spinto in questi anni per questa soluzione. Il referendum renziano era solo il colpo di picca finale. Una democrazia ‘veloce’ in questa accezione vuol dire disossata a pochi istituti, sfrondata, de-parlamentizzata, che si pone nelle mani di un esecutivo eletto per cinque anni senza timore che possa andare in crisi, con un premier ben saldo sulla tolda e ampi poteri esecutivi. Una democrazia che dica ‘sì’ all’economia, ai media, ai centri di potere extrapolitici. Questo è stato lo scenario possibile su cui si sono mosse da decenni le forze politiche e istituzionali, continuamente sollecitate e invogliate a forzare regole, mediazioni, ‘burocrazie’, nonché ad aprire come scatolette di tonno aule “sorde e grigie”.
Il populismo italiano è stato un fiume in piena che ha investito, in forme diverse, tutte le forze politiche, PD compreso. Che Veltroni quasi voglia scansare il termine per insistere sul carattere di destra “vera” del salvinismo, indica senz’altro una ritrosia, o meglio il tentativo nemmeno troppo velato di ‘salvare’ inconsapevolmente il termine da un accostamento abissale con la destra. In fondo la disintermediazione è roba di dominio pubblico, interessa un arco ampio di forze, è il mito a cui tecnica e globalizzazione (la loro “velocità”) tendono rumorosamente. La politica (come mediazione, cultura istituzionale, ambito della rappresentanza) è il primo bersaglio del populismo di destra e di sinistra. E che le cose stiano così lo confessa lo stesso Veltroni, nel suo articolo, quando dice: “la sinistra o accende un sogno o non è. […] La sinistra o è popolo o non è”. Dice proprio così: il sogno fa venire in mente Berlusconi, il termine ‘popolo’ invece parla da sé. A quel cosiddetto popolo il PD si rivolge con le ‘primarie’, che è un modo velocissimo per scegliere un leader, per indicare una linea, e che non scatena lentissimi dibattiti interni, non tocca le idee, non scuote alcunché, ma passa come un fiume carsico tra le maglie del partito e, giorno dopo giorno, lo disintermedia.
Guardate al modello cui aspira Veltroni, sempre lo stesso in fondo: “un partito orizzontale, fatto di cittadini e movimenti, di associazioni e autonome organizzazioni. Un partito a vocazione maggioritaria perché aperto, che usava le primarie come cemento per unire questo arcobaleno”. Un partito orizzontale, quindi, schiacciato su volontari ed elettori che si riconoscono nel leader, costretto a mediazioni ridotte o nulle, in cui la struttura tende ad alleggerirsi in modo irrimediabile, che tende ad aprirsi nel senso di scomparire per dare voce e corpo a un Capo che parli direttamente con il ‘suo’ popolo. Populismo, anche questo.
E qual è la proposta veltroniana oggi? Questa: “Bisogna inventare una forma originale di movimento politico del nuovo millennio”. Movimento, non partito. Originale, ossia inedito, dunque “nuovo”. Così come è “nuovo” il millennio. Ma è un nuovo che è in fondo un vecchio, un già visto, un deja vu. La riproposizione para para della matrice piddina originaria. Una cosa così “nuova” che è vecchissima, e soprattutto è perdente, perché ha aperto anch’essa la strada agli odierni populismi di destra e all’ansia di velocizzare, nonché a una cultura politica diffusa, astiosa proprio verso i partiti e le istituzioni, ossia i principali agenti politico-istituzionali di una democrazia rappresentativa composta da cittadini che partecipano in modo organizzato e consapevole alla vita pubblica. L’ex segretario invoca “nuove forme di partecipazione popolare alla decisione pubblica, una nuova stagione della diffusione della democrazia”. Tutto “nuovo” ancora, con un’idea della partecipazione che somiglia tanto a ondate di click online, con un concetto di diffusione della democrazia che sembra solo una migrazione sempre più marcata dai centri istituzionali verso un molle e indefinito panorama di società civile. Ancora disintermediazione, ancora allentamento dei nodi istituzionali e delle forme di rappresentanza, ancora una rincorsa del ‘popolo’ che scorrazza sui social, che armeggia con il mitico mouse o con il touch screen, che eleva direttamente dalla società civile i propri desiderata e dunque ha sempre ragione, così come ha ragione sempre il cliente sondato dal marketing. Capite allora perché la parola populismo viene scansata, perché si insiste solo sul carattere di destra dei gialloverdi? È perché la sinistra del terzo millennio il male ce l’ha dentro, perché è anch’essa vittima della malattia che ci avvolge e che si chiama populismo, disintermediazione, alleggerimento istituzionale, svuotamento politico, neutralizzazione, tecnica, leaderismo, riduzione della partecipazione a tendenze social, destrutturazione dell’edificio parlamentare in nome di non si sa che. Anche la sinistra, anche il PD, questa patologia ce l’ha nell’anima. Veltroni ce lo conferma ancor oggi. Non è quindi il momento di andare davvero oltre, di bloccare la coazione a ripetere?


