di Alfredo Morganti – 18 settembre 2018
Sfiorare la soglia del 3% per Salvini vorrebbe dire avere “24 miliardi da usare”. Lo leggo dai titoli del ‘Corriere della Sera’ dedicati alla manovra. Sarebbe un bel tesoretto, da destinare a pace fiscale, flat tax, quota cento, reddito di cittadinanza. Tutti capitoli dei programmi elettorali di Lega e 5stelle. Non un investimento, non una spesa che vada a incrementare la ricchezza sociale. Un rivolo di soldi che avanzano spediti verso le situazioni personali, ma che non intaccano per nulla in positivo il patrimonio collettivo (scuola, sanità, dotazione di servizi). Cambiano i governi ‘but the song remains the same’, come cantavano i Led Zeppellin. Altro che cambiamento. Di fatto si privatizzano e individualizzano risorse pubbliche, si punta a migliorare i conti personali ma a prosciugare quelli sociali, a dare due spicci a cittadini che ripagheranno tutto (e di più!) in termini di servizi che non ci sono o non funzionano, costretti a riversare di nuovo sul mercato privato le benevole elargizioni dell’esecutivo. Renzi e Salvini in questo sono identici. Racimolano dal bilancio dello Stato (quasi sempre in debito) soldi che poi distribuiscono nelle tasche private di questa o quella categoria, questo o quell’individuo sparso. Finanziano le loro promesse elettorali, saldano il conto con un elettorato di ragionieri, ed eludono il tema vero e primario, che è quello di migliorare la qualità della vita sociale e non solo le condizioni economiche personali di qualcuno, chiunque esso sia.
Che le cose vadano così è anche un effetto di ‘sistema’. Le competizioni elettorali leaderistiche, mediatiche, dove chi grida più forte vince, tendono a privilegiare il rapporto diretto tra competitore e cittadino, ad adottare il modello del marketing commerciale, a immaginare la politica come un grande mercato dove ‘dare soldi vedere cammello’. Consenso tanto al chilo insomma. D’altra parte, l’ideologia della società di mercato trasforma anche un confronto di opinioni in un saldo commerciale, anche il libero esercizio del voto in un do ut des contrattualistico. Le promesse curvano tutte sui patrimoni e sui redditi di chi deve esprimere il voto, l’impegno è a ‘ridistribuire’ i soldi pubblici in tanti rivoli personali (il modello paradigmatico sono gli 80 euro), impedendo che quel patrimonio di risorse pubbliche, così dilapidato, così concesso direttamente e/o indirettamente al mercato, possa essere strategicamente investito in beni pubblici duraturi o servizi per la collettività. Governi diversi ma figli della stessa ideologia, degli stessi valori, della stessa bramosia di consenso da acquistare spicciolo per spicciolo. Lo dico sempre: beate quelle democrazie dove il consenso lo si merita con le opere pubbliche e i servizi, e non con le regalìe. D’altronde, cosa vuol dire ‘padroni a casa propria’, il fortunato slogan della destra? Che il nostro mondo è tutto individuale, proprietario, monadico, e che il mondo esterno (la società) è solo un deserto. Estrema propaggine di un capitalismo globalista e straccione nello stesso tempo, che salva (o finge di salvare) le foglioline, mentre brucia allegramente l’albero su cui sono appese. La sinistra è dalla parte dell’albero, invece. Lasciate stare chi vi dice il contrario.


