di Alfredo Morganti – 9 aprile 2019
Adesso va tanto la consultazione in rete per scegliere il simbolo elettorale. Tutto legittimo, si badi. Basta che si sia consapevoli della deriva di marketing che si è presa. E della trasformazione in focus group dei propri iscritti e dei propri simpatizzanti. L’intento è quello di produrre il simbolo più accattivante, chiedendo direttamente ai consumatori di fornire i propri desiderata, ritenuti necessari a calibrare nel modo dovuto il prodotto. Quando si dice che la politica è finita, si dice proprio questo, non altro. Ossia che le regole sono diventate quelle del mercato, che il simbolo politico è solo un logo, un brand, un marchio che deve conquistare una piazza: non l’agorà, ma proprio una piazza economica. Il vuoto della politica, invece dei simboli, punta a produrre marchi aventi forza di mercato.
Ma non è tanto questo il punto, quanto il fatto che il soggetto politico (perché di questo si tratta) si ritrae dinanzi ai simboli, cessa di produrne, delega la responsabilità ad altri, al pubblico, agli elettori, al popolo, ai consumatori elettorali. O meglio, è indifferente ai simboli intesi nella loro tragica serietà politica, per interessarsi solo della loro efficacia, del loro impatto elettorale. Riducendo la prassi politica a una ricerca di conformazione con il pubblico, secondo i più tipici modelli di marketing. I gruppi dirigenti della sinistra, viepiù i nuovi, ragionano come quelli che affidano alla consultazione in rete le scelte politiche, come se un gruppo dirigente si componga unicamente di chi recepisce (e poi riproduce deterministicamente) istruzioni e comandi ‘popolari’.
Il simbolo scelto dal ‘popolo’ non è la stessa cosa di un simbolo che sia offerta, proposta di un gruppo dirigente, di un partito, di una politica, quale naturale ed eteronomo pendant. Il simbolo è parte dei contenuti della proposta politica, è la responsabilità stessa di fornire una prospettiva, una indicazione, un programma e, appunto, simboli che servano a decifrare meglio quella prospettiva. La scelta del simbolo non è svincolata dal contenuto che lo sostanzia, non è un disegnino qualsiasi che si sovrapponga a un prodotto qualsiasi purché efficace, purché funzioni, purché raccolga simpatia, gusti, adesione. La tragicità del simbolo politico ridotta allo scintillio emotivo di un logo, è un po’ come proporre un ‘volto nuovo’ invece di una politica (e al posto di una politica). Il marketing del logo sottoposto ai focus group è l’equivalente della personalizzazione della politica, almeno nella logica che lo ispira. Marchi, volti, convention sono divenute tante maschere, dietro le quali rischia di non esserci più nulla.
La prossima volta, però, sceglietelo voi, imponetelo il vostro simbolo, non fate i focus group e i sondaggi in rete. Perché il simbolo parla della politica che proponete, delle scelte che intendete fare, della vostra cultura politica. Il simbolo è collegato alla politica, è una sua espressione lineare, è frutto della medesima responsabilità soggettiva. E dovete essere voi del gruppo dirigente a fare il collegamento, a giudicare, a esserne responsabili. Se il marchio diventa altro, viaggia su binari divaricati e distanti rispetto alla proposta politica, se mette fuori gioco il giudizio del soggetto politico, se si affida al ‘pubblico’, allora il mercato ha preso il sopravvento sulla soggettività politica. Allora il simbolo diventa solo maschera, camuffamento, spunto di marketing, bandierina. E tale resta, indebolendo la politica, svuotandola più di quanto non sia, con un effetto retroattivo sui contenuti. Ovviamente. E non vale dire che il gruppo dirigente è composto da tutti, che la responsabilità del marchio è anche di tutti, che siamo un grande collettivo. Perché sarebbe solo un modo per scansare responsabilità.


