Perché non è questione di populismo? Ossia del rapporto dirimente tra Capo e Popolo? Perché lo scontro è tutto interno alle classi dirigenti, si svolge cioè ‘orizzontalmente’ e non ‘verticalmente’. È come se una fase si fosse acquietata (quella che puntava a una specie di cortocircuito tra i vertici dello Stato e il Popolo, con la cancellazione dei corpi intermedi), e un’altra stesse emergendo, soprattutto per l’impatto micidiale della crisi, che rimette in questione proprio i ceti intellettuali (a partire dai media) e i corpi intermedi o istituzionali (la Consulta, più volte chiamata in causa, oppure lo stesso Parlamento) .
La crisi, sia detto, non è un meccanismo che si inceppa e che bisogna far ripartire. La crisi, quella vera, è una cesura netta, un taglio logico-storico, una divisione che si manifesta tragicamente, un abisso che si spalanca. Questo sta producendo il coronavirus, ribaltando progressivamente alcune certezza e alcune posizioni sociali e culturali.
La crisi taglia in due le classi, i ceti, gli apparati, le istituzioni e mette i simili l’uno contro l’altro. Non si basa semplicemente sul dominio del diverso sul diverso, del potente sul debole. Questo semmai è l’obiettivo, non lo strumento. L’effetto sperato, non la situazione attuale.
Prendete l’appello degli intellettuali pubblicato dal manifesto: pone al centro (e fa bene) proprio la questione degli intellettuali. E i giornalisti? È evidente che la categoria viva la crisi più forte degli ultimi decenni: essere cassa di risonanza dei proprietari (solitamente potentati economico-finanziari) oppure riscoprire una professionalità, una autonomia, una dignità? E i giudici? È quasi scontro attorno ai DPCM di Conte. E certamente si stanno manifestando, più classicamente, anche contraddizioni in seno al popolo.
Questo è il taglio “orizzontale” della crisi. Cosa ben diversa dalla bonaccia populista, che fa strame delle mediazioni, dei ruoli istituzionali, delle responsabilità intellettuali, dei partiti, per buttarla tutta sul Capo che arringa la folla da un balcone o dal Papeete. E che spera di risolvere i conflitti ‘verticalmente’, in un connubio istantaneo e miracoloso tra il vertice dello Stato e l’ultimo dei sottoproletari.
La crisi, quella vera, quella che ‘decide’, non si contenta di Salvini e nemmeno del populismo di sinistra. Vuole segnare la storia. Ecco perché lo scontro sarà (ed è già) duro. Ecco perché quelli hanno in mente la sovversione, non il populismo mediatico. La clava della stampa, non la moral suasion culturale. Covano una spallata, un ribaltamento, un rovesciamento, per il quale serve non solo la forza bruta, ma anche l’incantamento della cultura, dell’informazione e della propaganda. Incredibile no? Quelli che gli intellettuali erano “culturame”, adesso li scagliano contro altri intellettuali, in un concettuale tintinnar di sciabole.
C’è poco da fare la destra è sempre la destra – e così pure la borghesia della finanza, della speculazione e dei grandi potentati. Comprano giornali per lavorare sull’egemonia culturale e per coprire la loro avanzata; le copie vendute c’entrano il giusto, non interessa l’impresa economica ma quella politico-culturale. Sono disposti a rimetterci.
Ci credono polli, sennò non si spiega. La questione oggi è più grande della professionalità di qualcuno o della indignazione di qualche altro. Sarebbe bello che questa fase fosse un momento di crescita anche per l’informazione. Ma, ne sono consapevole, forse chiedo troppo.
(Scusate, anche stavolta, la prolissità)


