Fonte: i pensieri di Protagora...
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Sapete che io non soffro per la quarantena. Anzi… Però devo ammettere che mi mancano due cose: mangiare fuori e andare a teatro. Magari un giorno parlerò anche della mia passione per il buon cibo, oggi però mi soffermerò sul teatro. Anche perché mi sembra che nessuno si occupi di quando – e con che regole – sarà possibile tornare a vedere gli spettacoli dal vivo.
Naturalmente mi manca anche andare al cinema, ma devo riconoscere che questa nostalgia è meno profonda. Sono assolutamente solidale con gli esercenti dei cinema, specialmente quelli piccoli, quelli di provincia, che già prima della peste facevano una gran fatica ad andare avanti. E appena si potrà, tornerò al cinema del mio paese, anche se daranno un brutto film, perché abbiamo un disperato bisogno che queste piccole sale indipendenti non chiudano. Ma posso vedere un film anche in altri modi e con altri supporti. So che adesso i puristi leveranno indignati gli scudi. State tranquilli, so anch’io che il grande schermo è un’altra cosa rispetto alla televisione e al computer, ma francamente poter evitare gli spettatori maleducati e il nauseabondo odore di popcorn (a me piace molto il popcorn, ma non capisco perché quello dei cinema abbia quell’odore) è per me un vantaggio non da poco, di certo superiore a quello di rinunciare alla poesia della sala.
Il teatro invece bisogna vederlo a teatro. Nonostante gli spettatori maleducati che imperano anche in queste sale. Almeno per ora non hanno sdoganato il popcorn, ma temo non ci vorrà molto. Perché il teatro è anche il qui e ora, ogni spettacolo è una storia a sé, perché ogni giorno chi è sul palco, anche se è lo stesso attore che recita le stesse battute – o lo stesso musicista che suona le stesse note – è una persona diversa e anche noi spettatori siamo diversi ogni giorno e ad ogni spettacolo a cui assistiamo.
Quando facevo un altro mestiere, ho avuto l’opportunità di conoscere Silvano Piccardi. Per questa amicizia mi è capitato di assistere per tre volte – sempre pagando il biglietto, beninteso – allo spettacolo Enigma, di cui ha curato la regia e che interpreta insieme a una splendida Ottavia Piccolo. Naturalmente ogni sera le battute sono state le stesse, ma ho assistito a tre spettacoli in qualche modo diversi, anche perché si sono svolti di fronte a pubblici diversi, uno dei quali composto da una percentuale pericolosamente alta di maleducati. Sono stati diversi perché la seconda volta sapevo già come finiva la storia, mentre la terza ricordavo ormai anche le battute. E soprattutto perché Ottavia e Silvano ogni sera hanno interpretato i loro ruoli con accenti e sfumature diverse.
Detto questo, da appassionato, da abbonato in un piccolo, ma assolutamente meritevole, teatro di provincia, difendo con passione lo streaming, di cui pure tanti cosiddetti appassionati sono strenui detrattori. Non a caso tra questi ci sono i conservatori fondamentalisti che occupano i loggioni dei teatri lirici, difendendo la loro presunta e moribonda ortodossia da ogni novità che considerano una forma di eresia. Credo di aver visto più opere liriche durante queste settimane di peste che negli altri cinquant’anni della mia vita, perché tanti teatri hanno messo a disposizione gratuitamente i loro patrimoni di registrazioni. Tra l’altro ho visto cose che mai avrei potuto vedere, perché non posso fare un salto a Londra per vedere uno spettacolo della Royal Opera House né tornare indietro nel tempo quando era ancora viva Daniela Dessì. E aver visto tutti questi spettacoli è un mio arricchimento che, tra l’altro, mi spinge a voler tornare il prima possibile a teatro. A vedere altre cose naturalmente.
Vedere un’opera sullo schermo del tablet è come andare a teatro? Assolutamente no. Immagino che Platone direbbe che è come la condizione di quei prigionieri incatenati in una caverna che credono che le ombre che si agitano in fondo a essa siano il mondo reale, ossia il livello più basso della conoscenza. Eppure un contadino bolognese – che non sapeva nulla di Platone, ma conosceva Verdi – avrebbe risposto “piutost che gninta, l’è mei piutost”. Questa rustica saggezza vale assolutamente anche in questo caso. Credo sia comunque un’esperienza da fare. E che in qualche modo debba continuare, anche quando finirà la peste, anche quando potremo tornare finalmente a teatro.
Naturalmente non sappiamo ancora come sarà possibile andare a teatro nel “dopo-peste” – come non sappiamo praticamente nulla di come sarà possibile fare ogni altra cosa, compreso mangiar fuori – ma immagino che le sale dovranno rinunciare a un discreto numero di posti – forse molti posti, quelli che garantiscono l’utile – che sarà più complicato e scomodo andare a teatro, perché immagino i biglietti saranno nominativi – saremo “schedati” noi che vorremo partecipare a questa pericolosa manifestazione del libero pensiero – e sicuramente più costoso. E già adesso, specialmente per l’opera, è molto costoso, per lo più un lusso da privilegiati oppure, come nel caso di molti di noi, la rinuncia a molte altre cose: o vai al Regio o fai altre due e tre cose che ti piace fare.
Le amiche e gli amici che vivono del teatro, della musica e dello spettacolo, perché quello è il loro lavoro, credo che in questi giorni, oltre a chiedere di essere considerati come lavoratori e quindi tutelati perché non hanno lavorato per molti mesi, dovrebbero interrogarsi su cosa sarà il teatro dopodomani, quando le sale dovranno in qualche modo riaprire. E dobbiamo pensarci anche noi spettatori. Perché abbiamo qualche diritto, ma soprattutto molti doveri.
Ad Atene non solo venivano pagati autori, attori e musicisti, ma soprattutto veniva pagato il pubblico: quella comunità voleva che le persone andassero a teatro, considerava il teatro un lavoro, non proprio smart. Perché il teatro era un potente strumento di propaganda e di lotta politica, ma soprattutto era considerato uno strumento di educazione. I cittadini che dovevano votare nell’assemblea e nei tribunali dovevano prima aver visto tragedie e commedie, dovevano aver conosciuto gli uomini e il mondo attraverso il teatro, che era uno degli strumenti della democrazia.
Sono consapevole di non vivere nell’Atene di Pericle – dove per altro sarei morto per la peste – e quindi accetto di non essere pagato per andare a teatro, ma vorrei che le mie tasse servissero anche a garantire che gli spettacoli non siano così costosi, per me e soprattutto per chi ha molto meno di me, ma ha bisogno di conoscere gli uomini e il mondo attraverso il teatro. Che continua a essere uno strumento della democrazia, come ogni altra manifestazione della cultura e dell’arte. E per fare questo abbiamo bisogno anche degli spettacoli attraverso lo schermo di un computer o di un telefonino. A gratis, ma anche pagando, chiedendo che una parte di quei soldi arrivi anche a chi ha realizzato quel lavoro.


