Perché avete paura? Un breve racconto dalla pandemia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

Perché avete paura? Un breve racconto dalla pandemia.

Ho inviato questo mio racconto al Premio Velletri libris. Non ha avuto fortuna e non ha vinto né ricevuto menzione. Tuttavia era nato in un momento particolare del lockdown, sulla suggestione della preghiera che il Papa il 27 marzo scorso aveva pronunciato da solo, in una piazza San Pietro deserta, sotto la pioggia, di sera. Ho subito pensato che in quel momento si stesse celebrando la speranza più grande, proprio mentre l’Italia era chiusa in casa e si affidava agli operatori sanitari quale essenziale ancora di salvezza.

Il racconto è breve, quasi fulmineo, e nasce sotto l’impressione di quell’uomo in bianco che lì, da solo, parla al mondo intimorito, alle anime assenti, con il male che dilaga. Mi faceva piacere pubblicarlo su questa pagina nel caso qualcuno volesse leggerlo. Con un’unica indicazione: cercate di leggere fissando nella memoria quella preghiera di Francesco e quel clima, oggi che tutti o quasi sembrano già aver dimenticato e si fa finta di nulla.

A cosa serve un racconto in fondo? E a cosa serve la letteratura? A tenere desta la memoria e a esprimere emozioni: un monito e una speranza assieme. Fuori di questo compito e di questa sfida è quasi inutile scrivere, se non per il solo diletto.

Buona lettura.

Alfredo Morganti

PS, per chi fosse interessato, il riferimento è Matteo 8:18-27 e Luca 8:22-25.
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Perché avete paura?

L’uomo vestito di bianco era al centro della grande piazza. Attorno a lui il vuoto. Sopra di lui un telo rosso lo proteggeva dalla pioggia, sopra ancora un cielo grigio, qua e là persino plumbeo. Fitte tenebre si erano addensate.
“Perché avete paura?” diceva.
La piazza sembrava uno specchio umido che rifletteva le preoccupazioni del mondo intero. E l’uomo vestito di bianco parlava al mondo intero.
“Perché avete paura?” diceva.
Ma come non avere paura? Come restare indifferenti? Miliardi di persone erano costrette in casa, isolate e senza poter uscire di casa. Tutti erano lontani da tutti. Il prossimo era il più lontano. L’Altro un mistero ancora più grande. Mentre lui, l’uomo vestito di bianco, era solo in quella piazza enorme, che dire ‘vuota’ non dava il senso esatto. La piazza era lo specchio dei nostri timori.
“Perché avete paura?” diceva.

Interrogava l’umanità. Ma non l’umanità universale, in generale, quella nozione astratta di umanità che pretendiamo di conoscere nella sua definizione concettuale, ma che non sappiamo davvero cosa sia. Lui interrogava in realtà ogni singolo uomo che di quella umanità era un rappresentante. Ogni singola coscienza. Ogni sguardo che in quel momento lo fissava inquieto da chissà dove. “Perché hai paura?”, chiedeva a ognuno. E vedeva volti spaesati, angosciati, ansiosi. Erano tutti lì, davanti a lui, anche se non c’era nessuno. Erano presenti nonostante la loro assenza. Era il vuoto più pieno che mai si fosse visto.

L’uomo vestito di bianco parlava a ognuno con la sua sola presenza, come fosse segno di se stesso: più di un lungo discorso, più di un sermone, più di un’omelia, per quanto molto ispirata. Più di un canto, più di ogni poesia. A molti degli assenti vibravano gli animi, come corde di violino, come gambi di fiori alla brezza leggera, come fili sottili che legano le nostre esistenze più, e meglio, di una gomena.

“Perché avete paura?” diceva a una piazza che intanto si riempiva di anime, ed era come una processione che non finiva, un corteo che ingrossava il cuore stilla a stilla, una sfilata di incertezze, sospiri e volti incorniciati dal dubbio. L’uomo vestito di bianco li guardò tutti, non in generale, ma uno a uno, scrutò ogni singolo viso, penetrò ogni concreta singolarità e disse: “Perché avete paura. Non avete ancora fede?”. A questa domanda un brivido percorse i fantasmi invisibili che riempivano la piazza vuota. L’interrogativo li aveva come svuotati. “Non avete ancora fede?” insistette. “Per questo avete paura?”.

“Ci sentivamo forti, ora chiediamo aiuto”, aggiunse. “Credevamo di essere immortali, e invece scopriamo di essere fragili. Siamo caduti. Pensavamo che non sarebbe successo!”. I fantasmi sembrarono allora uscire dal torpore, sembrarono ridestarsi. Ma non sapevano più cosa fosse la fede, quindi non capivano. “Siamo impauriti e smarriti. Siamo chiamati a remare assieme!”, disse ancora l’uomo vestito di bianco, solo ma circondato di anime, che vibravano traversate dalla eco che risuonava alle sue parole.

Eccola la fede. Il senso del legame, della solidarietà, dell’umanità. Un fatto laico, in fondo. L’umanità tutta, non solo Dio. L’umanità di ogni singolo uomo, non l’essenza generale di chissà che. Di ogni volto, di ogni particolare sguardo, di ogni individuo nella sua individualità. Ogni emozione, ogni sentimento, ogni mano tesa, ogni singolo aspetto o respiro o gesto, anche il più inafferrabile. Roba da uomini non da filosofi, roba da singole, minuscole creature, ma con grandi cuori e forti emozioni che battono in petto. La fragilità della vita, non la robustezza dei concetti. Tanti grani sparsi, tante voci non sovrapponibili.

Poi vi fu un canto, che pareva scendere dal cielo e pareva non finire mai. Poi ancora il silenzio. Prolungato, assorto, denso. Quello in cui le parole non contano, anzi disturbano. Il silenzio delle anime attorno, dell’uomo bianco solo, delle colonne che abbracciano la città, della grande cupola, delle fontane assorte.

“Perché avete paura. Non avete ancora fede?” disse l’uomo bianco solo. “Siamo chiamati a remare assieme!”. “Serve la vostra fede, oggi che siamo fragili, oggi che siamo uomini”.

Poi si alzò dalla sua sedia e si voltò. A piccoli passi ma solenni tornò piano, centellinando il tragitto, verso la grande basilica, mentre le anime sembravano diventare una cosa sola. La piazza, così vuota e piena nello stesso tempo, era una specie di paradiso.

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