Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Dopo le elezioni amministrative: quale centrosinistra?
Si fa presto a dire: ha vinto il centrosinistra. Lo ripetono in molti, ognuno tirando la coperta dalla propria parte, ognuno ritenendo che abbia vinto il tipo di centrosinistra più vicino alle proprie aspirazioni. Le coalizioni vincenti, fateci caso, sono radicalmente diverse: quella di Sala è la più centrista, quella di Lepore è larghissima, quella di Manfredi è un’alleanza organica coi 5stelle. Non dico nulla di Roma e Torino perché lì la partita è ancora aperta. Anzi, apertissima. Se analizzate il voto romano, vedrete che primo partito è risultato la Lista Calenda con 190.000 voti circa, secondo Fratelli d’Italia 175.000 voti, solo terzo il PD con 165.000. La lista Raggi, per dire, ha preso più voti della Civica di Michetti (43.000 contro 25.000 circa). Incongruenze? No, i numeri non sono mai incongruenti, lo sono semmai le interpretazioni.
Quale centrosinistra, quindi? Molinari, direttore di Repubblica, ha indicato subito quello di Bologna, perché lì c’è Italia Viva, i riformisti, dice lui, o meglio i ‘moderati’. È molto interessante invece, a mio parere, l’esperimento di Napoli, che ha dato pure ottimi frutti. In ogni caso, resta aperta la questione del tipo di coalizione da mettere in campo in futuro, a partire dalle prossime politiche. Perché allora non ci si potrà certo affidare alla creatività locale, ma servirà una strategia generale, efficace, autonoma (se possibile) da potentati economici e da centri antipartitici, appassionante per gli elettori, nonostante le nostre identità politiche si siano quasi integralmente dissolte nel coacervo indistinto dei tanti “poli” sparsi nel Bel Paese.
Sì, Salvini è in palese difficoltà, anche perché lo stesso centrodestra gli ha servito il piatto e vorrebbe rimpiazzarlo. Eppure da questo a dire che il sovranismo è morto, ce ne corre. La destra, in realtà, ha avviato le grandi manovre, si sta ristrutturando, sta mutando gli equilibri interni, è pronta a rafforzare la parte liberale rispetto a quella più sovranista, anticipando in ciò il centrosinistra, che questa ristrutturazione dovrà invece avviarla e accelerarla, sperando che ciò avvenga nel senso giusto, senza cedere alle pesanti lusinghe del centro tecnocratico, quasi uno stalkeraggio. Non sarà facile senza i partiti, ma disponendo appena di serpentoni bipolari a pelle variabile, la cui tipologia appare ancor più variegata, “leggera”, quasi impalpabile persino per i codici politici più popolari.
In ultimo, il fatto davvero eclatante è l’astensione, ben sopra la soglia di guardia. Un’astensione che si accompagna alla poca passione con cui molti cittadini sono, invece, andati a votare. D’altronde, a furia di dire che i partiti sono un merdaccia (cit. Fantozzi), un fardello, una zavorra rissaiola (lo ripetono per ultimi i draghisti) – che la politica è solo bieco interesse e che le istituzioni democratiche sono aule sorde e grigie – gli effetti sono necessariamente questi: il distacco, l’indifferenza, il riflusso (come si diceva negli anni settanta) ma stavolta indirizzato direttamente verso lo spritz.
Anche la formula dell’uomo solo al comando (almeno in ambito cittadino) sembra tirare meno, forse è il segnale che la legge dei Sindaci ha fatto il suo corso, che serve altro. Io credo che il bipolarismo introdotto in questi decenni, dopo aver diluito il brodo delle identità e dei partiti, adesso porga il conto, mostrandosi in forme e tipologie arlecchinesche, direi persino anarchiche. Se l’identità politica si discioglie, scolora e traspare più della carta velina, in assenza di un progetto nazionale ci si ritrova frammisti nel variegato miscuglio delle forze in campo, con localismi e particolarismi che rendono la situazione ancor più fosforescente e spaesante. Tempi duri per i troppo buoni, direi. Mi appello, quindi, alla saggezza di chi ci dirige per capire “che fare” e, dunque, di quale centrosinistra bipolarizzato si dovrà vivere (o morire).


