Fonte: Limes
La tendenza a schiacciare il passato sul presente, che abbiamo importato dalle università anglo-americane, mina la nostra sicurezza. L’impressionante sequenza di errori compiuti dall’Occidente dopo l’Ottantanove preludeva alla guerra di Putin.
1. È opinione corrente che sussistano limiti insuperabili alla nostra capacità di conoscere e comprendere gli eventi del passato onde stabilire con certezza «ciò che è avvenuto», secondo la formulazione datane da Leopold von Ranke, uno dei massimi storici tedeschi del XIX secolo, l’età d’oro dello storicismo europeo. Non si tratta solo delle lacune più o meno gravi con cui la documentazione relativa ai vari eventi passati è giunta sino a noi, ma anche della parzialità di molte delle testimonianze contemporanee sui fatti narrati.
Un altro fattore che ostacola l’irraggiungibile aspirazione alla compiutezza e all’obiettività della conoscenza storica è costituito dalla deformazione prospettica dello storico. Dal fatto cioè che egli inevitabilmente sia portato a leggere e interpretare gli eventi del passato con gli occhi del suo presente, con i valori e le sensibilità che ne fanno un uomo del suo tempo. Talché è un luogo comune e frutto di una condivisa consapevolezza che costui, in ultima analisi, sia sempre «storico del presente».
Questo limite, tuttavia, non significa che sia impossibile acquisire un’adeguata conoscenza del passato: tutt’altro. In effetti, pur con la consapevolezza dei nostri limiti e della relatività delle nostre valutazioni – anche le più apparentemente oggettive – l’esplorazione del passato, gli interrogativi che su di esso ci poniamo e ciò che pensiamo d’aver capito hanno rappresentato una dimensione essenziale di quella che potremmo definire la moderna cultura europea. Dimensione quanto mai utile anche per cercare di comprendere e interpretare il nostro stesso presente. Giacché mai come oggi pare avverarsi l’antica ammonizione che la mancata conoscenza (e comprensione) della storia passata porti le società umane a riprendere le strade già percorse, ripetendo gli errori già commessi.
Si tratta di un pericolo tanto più immediato e grave in quanto il nostro approccio tradizionale alla conoscenza storica è stato messo in discussione dal capovolgimento intervenuto soprattutto nelle società anglo-americane, dove la proiezione del nostro presente sulla nostra percezione degli eventi passati, tradizionalmente considerato come un fattore di deformazione, sembra assunta a nuovo canone disciplinatore della conoscenza storica. E dove una visione orientata secondo i nostri attuali criteri politici e i valori morali diventa canone interpretativo per valutare e, addirittura, selezionare e rileggere il passato.
Ne consegue che s’annulla ogni distanza tra passato e presente, facendoci perdere la consapevolezza dell’irrimediabile distanza che li separa e, con essa, la capacità di cogliere quanto di diverso dal nostro mondo si cela in questo passato, come anche la storicità e quindi la relatività di questo stesso presente, segnato dalle infinite radici che la storia vi ha sepolto. Le nuove mode o ossessioni intellettuali appaiono insomma avviate a trasformare quella che era la profondità di campo data dalla conoscenza storica in un’espressione senza tempo di categorie metastoriche, disciplinata da un dover essere fondato sul mito di valori eterni e universali dell’uomo, forgiati peraltro con la cultura e il linguaggio storicamente determinati di un certo periodo storico e di una specifica tradizione culturale.
Blocchi interi delle nostre conoscenze, non confacenti a sensibilità e interessi attuali, sono così cancellati e sostituiti da rappresentazioni ben più ipotetiche, quando non decisamente infondate, privilegiate solo perché più conformi alle nostre sensibilità. Assistiamo esterrefatti alla partecipazione attiva, in questi processi, di antichi centri del sapere come le università americane e inglesi, le quali tendono a limitare la ricerca di «ciò che è stato», sopprimendo quel che «non doveva essere» secondo i nostri canoni soggettivi, per trasformare in fatti avvenuti ciò che a loro giudizio avrebbe potuto o dovuto essere. Lavorando attivamente per falsificare la storia, rinnegando il fondamento epistemologico del nostro sapere. Dove questa coltre controriformista imposta alla nostra cultura incontra l’acquiescenza di molti e l’adesione entusiasta di altri. Così creando le premesse per l’affermazione di un insieme di ortodossie culturali e ideologiche protette da spazi di sacralità che escludono ogni discussione critica.
Questa deriva appare estendersi anche a molti aspetti delle pratiche politiche contemporanee, tese a privilegiare enunciazioni destinate a compiacere e persuadere il proprio pubblico, attestandosi sulle certezze delle ovvietà e ortodossie condivise. In tal modo una pratica retorica si sostituisce a quello che dovrebbe essere il fondamento ultimo dell’azione politica: l’analisi dei fatti, con la comprensione delle loro radici storiche per orientare le scelte effettivamente possibili 1. Si tratta, a mio giudizio, di una perdita secca che rientra nel più generale processo di dissoluzione di molte delle nostre tradizioni nell’età della globalizzazione e del politicamente corretto, agevolato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa e dalla nuova società dell’informazione.
2. L’aggressione russa all’Ucraina ci costringe a riflettere su tali tendenze e ci aiuta a esplorare i pericoli che vi si celano. Ma soprattutto a interrogarci sui possibili danni che possono derivare alla sicurezza stessa delle nostre società dalla rinuncia a fare i conti con il peso della storia e delle sue diverse narrazioni sul nostro presente e sui conflitti che lo attraversano. Non che i richiami al passato non siano stati effettuati nel corso di questa crisi, talora molto puntualmente, ma più spesso l’utilizzazione che ne è stata fatta è servita più a confermare giudizi di valore che a spiegare le logiche seguite dai singoli protagonisti della tragedia. Così evidenziando non solo la diversità delle varie versioni della stessa storia date dalle parti in causa, ma anche l’obiettiva inconciliabilità delle singole storie. Sicché troppo spesso c’imbattiamo in analisi e valutazioni fondate su princìpi generali e su sistemi di valori che hanno avuto una lunga maturazione nel corso della storia moderna, ma che solo dopo la seconda guerra mondiale si sono coagulati in princìpi generali tradotti convenzionalmente come «diritti naturali» dell’uomo. E ai quali ora si fa costante riferimento per sollecitare l’immediato consenso di opinioni pubbliche surriscaldate dal bombardamento mediatico, ma spesso poco orientate a prestare adeguata attenzione al complesso intreccio di fattori determinante nel far maturare quei fatti, ora isolati nella loro tragica e ingiustificabile violenza. Resi ancora più incomprensibili dalle immagini e dalle narrazioni giornalistiche.
A tale atteggiamento vorrei contrapporre una lettura più problematica, non già dell’ingiustificato ricorso di Putin alla guerra, ma della storia pregressa, che ha portato a questa rottura con esiti imprevedibili ma certo esiziali non solo per l’Ucraina e per tutti gli europei, ma anzitutto per i russi. Si dovrà partire da lontano: sin dal processo formativo di quel grande e complesso coagulo di popoli, lingue e culture confluito nel corso dell’età moderna nell’impero russo, realizzato in genere attraverso il sistematico impiego della violenza bellica. E ricordando come la sua struttura politica unitaria si sia permanentemente differenziata dalle corrispondenti forme che gli ordinamenti statali venivano assumendo nell’Europa occidentale sin dall’età degli assolutismi monarchici. Perché sono mancati in esso, o sono stati troppo deboli, quei processi di razionalizzazione che hanno reso possibile, nei secoli XVII e XVIII, l’evoluzione degli altri ordinamenti europei nelle forme generalizzate dello Stato di diritto plasmato sugli schemi del pensiero liberale. L’organizzazione imperiale russa ha così preservato, sino alla brusca rottura intervenuta agli inizi del XX secolo, l’incerta fisionomia a metà strada tra i modelli occidentali e le forme d’assolutismo strettamente associate a una fortissima consapevolezza della propria identità, impastata dalla conscienza del proprio ruolo di custode della «vera» tradizione cristiana, sino a identificare in Mosca la Terza Roma. Per passare poi senza soluzioni di continuità al dispotismo comunista, con la militarizzazione della società.
La costruzione dell’impero degli zar s’accompagna all’ambivalenza dei fattori e delle modalità della sua formazione. A partire dalla sua ben nota fisionomia espansionista, caratterizzata da una strategia di costante ampliamento dei propri confini, frutto a sua volta di un’insicurezza di fondo destinata a sostanziarsi in una forma abbastanza rudimentale di difesa preventiva. Se in tal modo i governanti russi tendevano ad allontanare almeno spazialmente i pericoli d’aggressione esterna, essi contribuivano alla persistente instabilità dell’intera regione, aggravando i problemi interni ingenerati dalla coesistenza di una molteplicità di nazionalità, culture ed etnie forzate in un’artificiale unità. Quanto nell’identità russa pesasse il valore dello spazio lo attesta appunto la memoria storica che ci riporta alla risposta di fondo alle grandi aggressioni esterne subite dalla Russia. Associata a quegli spazi che, nel romanzo chiave di Tolstoj, s’identificano con la tenace, paziente ritirata di Kutuzov di fronte alle armate napoleoniche, finite in una trappola mortale. Perché il punto che non si può mai dimenticare è che tutta la storia russa è attraversata dalla continua incertezza proveniente da occidente: da lì giungono gli eserciti teutonici, polacchi, sino appunto alla massima minaccia delle armate napoleoniche. A cui s’associa l’altrettanto forte reazione verso occidente, sino a Varsavia, Vilnius e oltre.
Incombe così, nella storia europea, l’immagine della vasta pianura che a est dell’Elba e del Danubio s’estende sino alle frontiere stesse dell’Europa, come una terra ripetutamente esposta alle aggressioni da un Occidente, a sua volta, sempre minacciato dall’espansione russa. Talché, a oltre trent’anni dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, la memoria collettiva e il senso d’identità russo sono tuttora indissolubilmente legati alla «Grande guerra patriottica» contro l’invasione nazista, esaltata dall’epopea di Stalingrado.
Ben si comprende come anche il bulimico assorbimento di Stati cuscinetto a difesa dei propri confini perseguito da Stalin dopo la vittoria su Hitler sia stato ricondotto alle antiche logiche della Russia imperiale. In tale continuità si collocano anche le perdite territoriali inflitte alla Russia nel 1917 e le minacce alla sua stessa esistenza degli eserciti controrivoluzionari supportati dalle potenze europee. Dove si rinnovava l’ambivalenza che aveva da sempre connotato le relazioni tra la Russia e la civiltà europea, sin da Pietro il Grande. Perché da allora l’impero s’era avvalso massicciamente, per la sua stessa affermazione in termini di potenza, del patrimonio culturale e scientifico-tecnologico occidentale, facendo anche riferimento ai relativi modelli politico-istituzionali, in particolare attraverso i costanti e fitti contatti con il mondo germanico. Anche se queste relazioni avevano subìto ripetutamente improvvise interruzioni col susseguirsi di quelle ondate di ripulsa sotto l’impatto delle correnti slavofile e anti-occidentali sempre attive nella tradizione russa.
Alle latenze storiche avevano prestato attenzione quei pochi che, prima della caduta del Muro, non s’erano limitati a considerare la crescente disfunzionalità dell’intero apparato socioeconomico messo in piedi dal modo di produzione proprio del socialismo reale. Essi avevano già individuato un altro fattore di crisi nelle latenze centrifughe presenti nella forzata unità delle tante nazionalità costitutive dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, risvegliate proprio dall’irreversibile declino dell’economia socialista. Sappiamo come questo fattore s’imponesse poi in modo devastante nel momento in cui al mutamento del modello economico s’associò il tentativo di introdurre nel vasto corpo dell’Urss princìpi di democrazia – o almeno di «trasparenza» – politica. Perché allora le dinamiche indotte dalla dissoluzione del potere sovietico a livello centrale – con El’cin più interessato a soppiantare Gorbačëv che a preservare l’unità del sistema territoriale dell’Unione Sovietica – si saldarono agli interessi delle oligarchie locali impegnate a sopravvivere al crollo del sistema gerarchico centralizzato da cui era dipesa la loro stessa esistenza. La convergenza di queste forze e interessi anche contraddittori portò così alla rottura dell’antico impero, adottando in fretta e furia, spesso senza dare a esso contenuti concreti in termini di partecipazione democratica, gli sbandierati princìpi di autodeterminazione cari alle democrazie occidentali.
3. La nostra generazione ricorda ancora il caos di quei giorni, il drammatico susseguirsi delle notizie da Mosca, il tentato Putsch «controrivoluzionario» degli uomini del vecchio apparato, i proclami di El’cin, la progressiva emarginazione di Gorbačëv. Era evidente la difficoltà delle «potenze vincitrici» della guerra fredda, anzitutto degli Usa, di intervenire nel processo di dissoluzione delle antiche istituzioni e della loro ricomposizione in un nuovo ordine. La vittoria geopolitica non s’era sostanziata in una resa formale degli eserciti e di uno Stato sovrano e non aveva quindi conferito ai vincitori il potere di dettare le nuove regole. Queste sarebbero venute solo dal caos di processi apparentemente fuori controllo e non governati. E questo spiega la sostanziale incertezza che caratterizzò la politica occidentale nei riguardi del dissolto impero sovietico, ricca solo di ammaestramenti ispirati ai propri modelli: le logiche dell’economia classica, secondo i dettami della Banca mondiale, e i princìpi fondanti delle moderne democrazie e dello Stato di diritto. Ma non spiega del tutto la relativa marginalità dell’intervento economico occidentale a favore di una società in profonda crisi, ben diverso dalla grande e innovativa politica perseguita dagli Stati Uniti nei riguardi dei vinti della seconda guerra mondiale.
In quegli sviluppi dovette filtrare il peso di un’eredità storica che venne addirittura accentuandosi nel tempo, preparando le crisi che nel corso del nuovo secolo accompagnarono l’inizio di comportamenti aggressivi della Federazione Russa al di là delle proprie immediate frontiere. La consolidata ostilità e il senso di separatezza che avevano plasmato le relazioni tra Stati Uniti e Urss al tempo della guerra fredda restarono latenti anche nell’èra successiva, sostanziandosi nell’atteggiamento di reciproco sospetto, sia nelle strutture di governo sia nella stessa sfera della politica. Destinato a trovare ben più che una semplice consonanza nell’alleato più stretto degli Stati Uniti: l’Inghilterra. Perché tutta la sua storia imperiale è segnata dal costante antagonismo con la bulimia territoriale dell’impero russo. Del resto l’antagonismo tra i due imperi non derivava solo dalle reciproche minacce alla propria sicurezza, che si sarebbero esasperate nello scontro in Asia centrale lungo il XIX secolo. Giocava anche il fatto che nel corso dell’età moderna essi si contrapponessero sempre più come due modelli politici alternativi, ai poli opposti del sistema europeo: la persistente autocrazia di diritto divino degli zar contro la progressiva costruzione dello Stato costituzionale in Gran Bretagna. Ancor oggi, se sfogliamo le annate dell’Economist, il settimanale dell’ortodossia liberale e liberista anglosassone, possiamo cogliere l’eco di quest’antico contrasto nella vera e propria ossessione ingenerata dalla presenza, prima che dalle stesse sue condotte, della Russia di Putin e dalla sua violazione delle buone regole.
Ma questa stessa lettura ci aiuta a comprendere come le difficoltà sperimentate negli anni Novanta dalle potenze vincitrici nel ridefinire il loro rapporto con i vinti d’allora s’intrecciassero anche a veri e propri errori di carattere ideologico. Primo tra tutti l’idea che la vittoria sull’Urss segnasse la fine della storia, aprendo una nuova stagione di un mondo finalmente pacificato, in grado di fruire del crescente benessere derivante dal funzionamento ottimale dell’economia di mercato. Questo errore si fondava sulla dogmatica relazione tra libertà economiche e politiche corredata dalla rule of law a sancire le regole di un gioco globale in cui tutti sarebbero stati vincitori. Al fondamento restava l’assunto – sotteso alla grande e affascinante costruzione di Adam Smith – della «naturalità» con cui gli schemi della proprietà privata dovevano organizzarsi nella forma del mercato come punto d’incontro e d’equilibrio della domanda e dell’offerta dei beni e meccanismo di definizione dei prezzi ottimali. Che poi a queste libertà economiche e alla centralità delle forme della proprietà privata che ne costituiva il fondamento dovesse quasi necessariamente corrispondere la certezza del diritto e la formale autolimitazione dello Stato era l’ovvio corollario che ne aveva ricavato tutto il pensiero liberale. In effetti, nelle società europee come già nei nuovi Stati del Nord America, questi equilibri s’erano venuti realizzando in modo relativamente efficace.
Questo spiega perché alla fine del secolo scorso ci si poté illudere che, in ritardo di uno, se non di due secoli, lo stesso percorso battuto un tempo dall’Inghilterra, dalla Francia, dagli Stati Uniti e da tante altre società sviluppate potesse ora aprirsi al mondo che veniva costituendosi dalla frantumazione dell’impero sovietico. A confermare la possibilità di una netta inversione delle storie nazionali, indotta dall’imposizione di alcuni parametri propri del liberalismo, non giocavano forse le grandi «storie di successo» della moderna democrazia costituita dalla riconversione ai suoi valori delle nazioni sconfitte nella seconda guerra mondiale? Non si poteva pensare che analogo sarebbe stato il percorso imboccato dalla Federazione Russa, dalla Georgia o dall’Uzbekistan eccetera?
Questo approccio ci appare oggi frutto della sopravvalutazione del valore operativo delle costruzioni teoriche, anteposte acriticamente all’attenzione al contesto specifico e alle sue peculiarità storiche. Perché le idee che qui richiamavo sottovalutavano in modo drammatico il peso della storia. Non era infatti per nulla facile che delle varianti così complesse quali gli schemi propri del capitalismo economico e dello Stato di diritto, prodotte da una lunga storia specificamente europea, potessero spontaneamente fiorire in una società che non aveva mai conosciuto le regole di uno Stato liberale e la cui economia solo per un brevissimo tempo s’era orientata in senso capitalistico 2.
4. Sappiamo com’è andata nella Russia di El’cin, quando vi si sperimentarono malamente i paradigmi occidentali. Allora infatti l’intera società russa parve avviarsi alla dissoluzione interna e verso una crisi economico-sociale di gigantesche proporzioni di cui, oltre al crollo del pil, l’abbassamento dell’aspettativa di vita fu sinistro indicatore. Senza peraltro che le potenze occidentali facessero molto per aiutare la Federazione Russa. Come meravigliarsi poi che il «ritorno all’ordine», perseguito con forme autoritarie dall’ex funzionario dei servizi segreti succeduto a El’cin, riscuotesse il consenso popolare, segnando anche la lunga marcia per il riscatto dalle umiliazioni subite sul piano internazionale?
La verità è che da tempo il costante movimento del grande pendolo che nel corso dei secoli ha accompagnato il tormentato rapporto d’avvicinamento e d’allontanamento dei russi dai loro vicini occidentali aveva iniziato il suo movimento retroflesso. Ciò credo abbia avuto inizio sin dagli anni di El’cin. Un sintomo fu la rinnovata elezione alla Duma, quando le forze «conservatrici», dove iniziava a riemergere la nostalgia per il vecchio regime socialista, entrarono con forza in parlamento. Iniziò intorno a quegli anni la stagione del progressivo disincanto, dopo i decenni d’appassionato interesse per l’Occidente, con la sua immagine d’opulenza e di libertà.
Ma dei sintomi di tutto ciò, tra cui la stessa ascesa di Putin, le potenze occidentali non si curarono. Disattenzione destinata ad aggravarsi nel tempo. Alcuni atti politici, allora largamente divulgati, fanno pensare che almeno nei primi anni del nuovo reggimento di Putin la Russia fosse interessata a inserirsi in un nuovo ordine internazionale, incentrato sugli Stati Uniti, ma in cui fossero garantiti sostanziali equilibri e uno spazio adeguato agli altri partner. La stessa ripetuta ed esplicita protesta da parte del nuovo vertice russo per l’allargamento della Nato e per altre scelte considerate lesive degli interessi di Mosca apriva lo spazio per un confronto tra le parti interessate al generale riassetto dell’ordine internazionale.
E che tale riassetto fosse necessario lo attestavano anche quelle numerose voci che s’erano già levate in Occidente per segnalare i pericoli derivanti dagli errori che si stavano commettendo nei confronti della Russia. Ad esempio quelle dei protagonisti delle pagine più felici della politica estera statunitense nella seconda metà del secolo, da Kennan a Kissinger. Dai quali proveniva l’allarme già insorto al tempo di El’cin, quando Clinton aveva favorito l’ammissione nell’Alleanza Atlantica degli Stati che avevano già fatto parte del Patto di Varsavia, violando l’antica promessa orale di Reagan a Gorbačëv. Ma che s’era aggravato con la presidenza di Bush jr., il quale aveva sponsorizzato l’ingresso nella Nato dei nuovi Stati sorti dalla frantumazione dell’Urss, scelta che non poteva non esser percepita come un atto d’ostilità dalla Russia contro cui quell’Alleanza era stata concepita, senza aver poi mai mutato finalità.
Persino la stampa italiana, nelle scorse settimane, pur inondandoci di un’enorme quantità di messaggi emozionali e patetici e pur dando tanto spazio alle anche giuste reazioni contro l’aggressione russa, non ha mancato di ricordare queste prese di posizione occidentali, allarmate dalla politica d’allargamento a est della Nato, di cui erano restate assolutamente incerte fisionomia e funzioni nel nuovo mondo uscito dalla fine della guerra fredda 3.
Tuttavia, malgrado l’invito che Henry Kissinger aveva rivolto ai dirigenti del suo paese a non trattare i governanti russi come «un’anomalia alla quale insegnare con condiscendenza le regole di condotta definite da Washington», fu proprio questo che avvenne. Di qui il continuo stillicidio di esami e valutazioni che la cultura politica anglosassone ha continuato a fare intorno al tasso di estraneità della Russia di Putin ai propri valori. Dove del tutto comprensibile ci appare la delusione per gli sviluppi sempre più autoritari e tali da deludere la speranza occidentale che finalmente i princìpi dello Stato di diritto finissero col prevalere nella nuova Russia. Comprensibile, ma non per questo tale da giustificare la crescente reazione di rigetto che venne maturando nei riguardi della Federazione Russa, quasi che nei decenni precedenti l’egemonia statunitense non avesse intrattenuto rapporti economici e politici, anche stretti, con dittatori vari e regimi oppressivi e retrogradi. Cosa del tutto ovvia nella logica di quella Realpolitik cui durante la guerra fredda Washington aveva pur prestato fruttuosa attenzione, ma di cui ora, nella contemplazione della conseguita Pax Americana, sembrava dimentica.
Non ci si può sottrarre all’impressione che le varie presidenze statunitensi (in particolare quelle democratiche) incontrassero notevoli difficoltà nel definire il loro rapporto con Putin e la nazione da lui rappresentata. Emergeva quindi la tendenza a ridurre il ruolo della nuova Russia a una dimensione solo regionale. Offesa sanguinosa per chi, come il nuovo leader russo, aveva costruito le sue fortune politiche nel segno del riscatto della patria dalle umiliazioni seguite alla sconfitta dell’Ottantanove. Forse in ciò si può cogliere una pericolosa sottovalutazione dei pericoli derivanti dal deterioramento dei rapporti con quella grande potenza. Fatto tanto più sconcertante in quanto la stessa politica americana contribuiva, seppure in negativo, ad ampliare gli spazi e le opportunità d’intervento di quella potenza nel quadro internazionale. Ci riferiamo alla riconversione strategica avviata sin dalla presidenza Obama, sostanziatasi nel progressivo disimpegno statunitense verso le frontiere occidentali del suo impero, segnatamente nel Mediterraneo. Di qui l’assenza americana dal caos ingeneratosi con le primavere arabe, clamorosa in occasione della crisi siriana. Si apriva così alla Russia la possibilità di tornare nel Mediterraneo, grazie alla disponibilità di forze militari da dispiegare sul terreno (insieme ai migliorati rapporti con la Turchia di Erdoğan). Ciò che si sarebbe ripetuto in seguito sia nella guerra contro lo Stato Islamico sia con l’intervento nel caos libico.
Sarebbe stato comprensibile che gli Stati Uniti, mentre s’accingevano a spostare una quota consistente dei propri interessi verso l’emisfero del Pacifico per confrontarsi più direttamente con il protagonismo geopolitico-economico cinese, cercassero di garantirsi la tranquillità alle frontiere occidentali migliorando i rapporti con i russi e prestando maggiore attenzione ai loro interessi nell’«estero vicino». Ciò non è avvenuto, sino al punto che il peggioramento dei rapporti tra l’alleanza occidentale e la controparte russa ha portato alla crisi attuale. Di qui il legittimo sospetto che gli altri protagonisti di questa partita abbiano colpevolmente sottovalutato i limiti invalicabili oltre i quali la controparte avrebbe preferito il rischio di una soluzione militare a una pace ritenuta inaccettabile.
5. Sulle responsabilità relative al processo che ha portato a queste scelte irrimediabili si discuterà a lungo. Agli storici di domani spetterà il compito di ripartirle tra i tanti protagonisti, magari producendo tra cinquant’anni un capolavoro analogo a quello di Clark sulla prima guerra mondiale 4. Qui invece vorrei concludere ricorrendo ancora una volta alle storie passate per riflettere sulla tragedia di queste giornate. Non già per speculare sugli effetti e sul riposizionamento futuro delle forze in campo, ma perché vi sono alcuni punti che debbono ispirare il nostro giudizio nell’impasto di déjà vu e di situazioni affatto nuove che la guerra in corso ci propone.
È evidente che la generalizzata esecrazione dell’inaccettabile aggressione russa da parte delle democrazie europee e degli Usa si sia saldata con antichi e sempre rinnovati giudizi negativi sull’assetto politico della Federazione, con la sua fisionomia sempre più esplicitamente illiberale. Una pagina nuova, ma analoga al costante atteggiamento di preoccupazione e di sospetto tenuto dal consesso degli Stati europei nei riguardi dell’autocrazia zarista nel corso di tutto l’Ottocento.
Eppure parrebbe scattare una diversità. La Russia è sempre stata parte integrante del sistema ottocentesco degli equilibri europei. Tanto che il rapporto tra l’impero germanico e quello russo fu uno dei punti cardine del sistema di relazioni intraeuropee tessuto da Bismarck, la maggiore intelligenza politica (insieme a Metternich e a Cavour) dell’Europa ottocentesca 5. Oggi invece è legittimo ipotizzare che la politica europea avviata con le sanzioni possa avere un’efficacia strutturale. Sicché le sanzioni sarebbero destinate a tagliare in modo permanente l’intreccio di relazioni esistenti tra i nostri paesi e la Russia.
Certo restiamo nel campo delle ipotesi, giacché la storia passata ci presenta anche esempi di crisi molto gravi seguite a una relativamente rapida ricomposizione del quadro internazionale. Penso ad esempio all’improvvisa e abbastanza poco comprensibile crisi che sfociò nella clamorosa guerra di Crimea – territorio eccentrico ma pur stranamente così importante nella storia europea. Tuttora gli storici non sono in grado di dare una spiegazione razionale del perché il governo britannico decise d’intervenire militarmente in uno scontro in quelle lontane province cui non erano legati suoi interessi particolari, se non una molto discutibile preoccupazione per la possibile minaccia all’Europa e addirittura agli interessi inglesi in Asia da parte della Russia. L’intervento si risolse in catastrofe. L’unico a beneficiarne fu il nostro Cavour.
Oggi occorre richiamare le novità che rendono la crisi ucraina diversa dalle precedenti. Anzitutto il ruolo incombente dell’arma atomica che ha mutato le condizioni di quadro in cui possono darsi le avventure militari. E poi, a incidere spesso non positivamente sulla razionalità delle condotte geopolitiche dei vari protagonisti, come anche sugli stessi sviluppi bellici, gioca ormai la potenza, l’immediatezza e la capillarità dei sistemi d’informazione e di comunicazione. Essi infatti acuiscono in modo pericoloso il carico emotivo riversato su un’opinione pubblica messa sotto pressione, riflettendosi sulla stessa azione dei governi. Sebbene si debba anche tener conto della loro efficacia nell’illuminare ogni aspetto delle azioni dei tanti protagonisti di queste vicende, forte limite a quell’arbitrio che gli arcana imperii hanno sempre garantito al potere sovrano 6.
Ultimo ma non secondario elemento di novità: uno dei grandi giocatori, forse il maggiore sceso oggi in campo, è per qualche verso esterno al quadro territoriale pur così vasto in cui si svolge questa nostra storia. Ciò assicura agli Stati Uniti una libertà che s’aggiunge alla loro superiore potenza, sovrastando potenzialmente i diretti contendenti del conflitto. Ben diversa anche da quella di cui fruiscono tutti gli altri europei, prigionieri del quadro territoriale in cui si svolge il confronto armato tra russi e ucraini. Questa libertà, insieme alla loro indiscussa leadership nella guida delle società liberali, è sembrata sinora confermare la tradizionale tendenza di Washington a farsi carico dei conflitti, anche geograficamente lontani, non solo per tutelare i propri interessi ma per affermare valori condivisi. Mi chiedo quanto, alla lunga, questa linea politica possa esser perseguita, trovandosi essi stessi nella necessità d’evitare il diretto coinvolgimento in un confronto armato con una potenza nucleare come la Russia, ma non potendo poi, nel medio periodo, non tornare a concentrarsi sulla competizione con la Cina.
E questo ci porta al vero nodo del problema. Perché se l’attuale livello di scontro con la Russia non degenererà in un vero e proprio conflitto con i paesi della Nato, gli Stati Uniti avranno una libertà di manovra pressoché assoluta. I colpi che essi possono infliggere all’avversario sono incommensurabilmente più dannosi dei contraccolpi che possono riceverne. Esattamente quello che non è vero per i nostri paesi europei. Anzitutto perché essi, mentre sono coautori della politica di containment della Russia, costituiscono anche il teatro allargato entro cui la guerra tradizionale è combattuta e ne ricevono tutti i potenziali impatti negativi: dai profughi ai possibili sconfinamenti territoriali. Intanto in Ucraina, per la prima volta in uno scenario europeo, con i contractors e i «volontari», sono riapparse le milizie mercenarie. Certo, niente di paragonabile al flagello rappresentato da quegli eserciti al soldo dei sovrani europei in lotta tra loro, sino ancora alla soglia delle rivoluzioni settecentesche. Ma questi sono segnali della crescente permeabilità delle nostre società, che potrebbe divenire drammatica se s’indebolisse la regia statunitense.
E questa eventualità va considerata, giacché dopo la seconda guerra mondiale le dimensioni globali dell’impero americano spiegano la molteplicità dei suoi interventi anche militari nelle più diverse aree, ma s’associano pure al fatto che quasi mai essi si siano consolidati in assetti istituzionali e territoriali durevoli. Per questo pare quanto mai verosimile che tra i maggiori perdenti di questa crisi dovranno annoverarsi proprio i paesi europei. E soprattutto le componenti meridionali dell’Unione Europea, i cui interessi economici e geopolitici il visionario De Michelis già negli anni Ottanta del secolo scorso ravvisava messi a rischio dall’affermarsi di un’«Europa baltica» 7.
Restiamo intanto incerti di fronte al colossale punto interrogativo che rappresenta il futuro della Russia. Qui l’eventuale sopravvivenza dell’attuale regime politico potrebbe realizzarsi solo attraverso il suo ulteriore indurimento. Non tale da evocare, malgrado la consolidata alleanza di Putin con la Chiesa ortodossa, la connotazione fortemente religiosa del dispotismo zarista. Ma privo anche della grande fonte di legittimità che il mito della rivoluzione d’Ottobre e l’utopia di una società socialista avevano fornito ai governanti sovietici.
L’unico fattore di consenso, per gli attuali governanti, potrebbe ridursi alla sacralità della storia e dell’identità nazionale, con il ricordo condiviso della «Grande guerra patriottica» contro Hitler. Forse insufficiente a evitare di scadere a mero sistema di potere fondato sulla violenza.
Note:
1. Ricordo per incidens come forma tradizionale della pedagogia del governante nella storia europea sia stata da sempre lo studio della storia. Che non sempre s’esauriva nella retorica delle vicende esemplari e gloriose, ma poteva esser utile, a chi ne avesse le capacità e l’interesse, per imparare a farsi carico dei problemi contemporanei, seguendo l’esempio della lettura degli antichi fatta dal nostro Machiavelli, conoscenza obbligata del principe moderno.
2. È sin dai tempi dell’Urss che una pubblicistica superficiale e buona parte dell’opinione pubblica occidentale non siano mai riuscite a cogliere la presenza significativa nelle tante manifestazioni di dissenso, anche tra i suoi esponenti di primo piano, di un filone veteroconservatore legato alle tradizioni del panslavismo sette-ottocentesco, mai dissoltosi nella società russa e che per certi versi appare contraddittorio con le lotte dei suoi settori progressisti e liberali.
3. Ma un riscontro si ha anche all’interno delle diplomazie europee. Ad esempio tra i diplomatici italiani di maggior spicco negli ultimi due decenni del secolo scorso, da Sergio Romano a Umberto Vattani, si possono ricordare significative prese di posizione in tal senso.
4. C. Clark, I sonnambuli, Roma-Bari 2016, Laterza.
5. Anche se è vero che uno dei fattori che contribuì a fare della Serbia il detonatore della crisi con cui il lungo equilibrio europeo venne a rompersi definitivamente fu la politica panslavista degli zar.
6. A farci riflettere sull’assoluta novità rappresentata dall’accresciuta importanza del sistema delle informazioni v’è lo stesso imprevisto (specie dai russi) ruolo del presidente dell’Ucraina come fattore di mobilitazione della resistenza nazionale ma anche di orientamento dell’opinione pubblica di molti altri paesi. Ruolo legato alle virtù personali, ma anche alla capacità professionale tipica di chi conosce bene i media e sa raggiungere il pubblico.
7. Senza considerare che un altro fattore di debolezza europeo è rappresentato dall’impossibilità di contare oggi sulla stabilità delle strategie statunitensi, non solo per l’oggettiva incertezza del quadro internazionale ma anche, se non soprattutto, per la fragilità degli equilibri politici interni destinata a riflettersi anche sulla strategia estera, essendo venuta meno quella logica bipartisan che l’aveva a lungo ispirata.





