Roma, la grande bruttezza: il travagliato rapporto tra il Pd e Roma

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fabio Martini
Fonte: La Stampa

Roma, la grande bruttezza: il travagliato rapporto tra il Pd e Roma

In un verso dedicato a Roma, Pier Paolo Pasolini scrisse che «non si piange per una città coloniale» e quella espressione bella ed enigmatica sembra fatta apposta per pennellare il rapporto “maledetto” che ormai lega il Pd romano e la Capitale. Certo, la scenata nella notte ciociara andrà capita in tutti i suoi addentellati, ma la vicenda ripropone una volta ancora il rapporto, spesso coloniale, tra il Pd e Roma, un rapporto illustrato da una “striscia” di brutture mai viste prima e mai viste altrove.

Come la storia di “mafia capitale”, esplosa nel 2014, con il coinvolgimento dei Dem in affari opachi, riassunti bene in una intercettazione nella quale Salvatore Buzzi, prima di diventare imputato e condannato, diceva: «Il Pd sono io!». Così come una storia originalissima, unica nella storia della Repubblica, resterà per sempre l’appuntamento dal notaio dei consiglieri comunali del Pd che nell’ottobre 2015 firmarono per far dimettere il loro sindaco Ignazio Marino, “colpevole” di eccessiva indipendenza agli occhi del presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Un licenziamento che equivalse ad un harakiri: il Campidoglio fu conquistato da Virginia Raggi e dai Cinque stelle.

Certo, la deriva del Pd romano come partito “prosaico” sta dentro una storia più lunga, la storia di una città nella quale ha sempre dominato un potere pubblico fortissimo, capace di garantire una miriade di interessi privati. Quelli che Alberto Arbasino una volta ebbe a definire «una quantità di piccoli ambienti, minuscoli clan». Una storia antica che viene da lontano, anche dal paternalismo dei Papi, che garantivano pace alimentare e pace sociale con la beneficenza. Un paternalismo proseguito nel secondo dopoguerra quando il consenso politico è cresciuto attorno a poteri forti, che prima erano democristiani e poi hanno cominciato a guardare al centro-sinistra: i costruttori, la Rai, il mondo del cinema, i dipendenti pubblici, anche le associazioni cattoliche come Sant’Egidio, che non a caso da pochi giorni è entrata nelle liste del Pd. E tuttavia i progenitori del Pd, la sinistra che nel 1976 per la prima volta si affaccia al potere cittadino, il Pci di Giulio Carlo Argan e Petroselli, aveva un volto diverso da quello della sinistra di oggi. Racconta Corrado Bernardo, l’ultimo assessore democristiano nella storia di Roma: «Ricordo in Consiglio comunale degli anni Ottanta: noi Dc eravamo gli avversari, ma tanto di cappello ai comunisti e alla loro serietà. Ogni volta che c’era un problema, a cominciare dal giovane Veltroni, si consultavano con Petroselli. Per diventare il capo dovevi avere una storia dietro le spalle. Oggi nel Pd a Roma non c’è un capo, ognuno fa per sé».

In queste ore ci si affanna a capire la matrice politica di Albino Ruberti e la natura dei suoi rapporti politici con Nicola Zingaretti, per anni il suo “principale” e con il sindaco Roberto Gualtieri. Chi conosce Ruberti da 30 anni confida: «La storia che circola in queste ore per cui Albino sarebbe stato messo da Zingaretti per “controllare” Gualtieri, è una bufala. Albino aveva capito che in Regione il potere andava scemando e l’epicentro sarebbe diventato il Campidoglio. La mappa del potere della sinistra a Roma è cambiata, attenzione a ragionare con vecchi schemi».

Una storia interessante, mai scritta. A Roma la Seconda Repubblica si apre, nel 1993, con il ritorno della sinistra in Campidoglio: i romani eleggono e rileggono sindaco prima Francesco Rutelli e poi Walter Veltroni. Per 14 anni il gran patron è Goffredo Bettini: i rapporti con i poteri forti sono quelli di sempre, ma il buon governo del Campidoglio copre tutto. Il vecchio “sistema” si rompe il 16 marzo 2021 quando Nicola Zingaretti vorrebbe candidarsi sindaco, ma tergiversa e Claudio Mancini, il “nuovo” Bettini, lo brucia, lanciando Roberto Gualtieri.

Ma alla fine la “grande bruttezza” nel rapporto tra Pd e Roma si può riassumere in due sequenze, in parte sfuggite all’attenzione collettiva. Era l’alba del 15 giugno e un cinghiale riuscì a passeggiare là dove nessuno dei suoi parenti aveva osato spingersi: attorno al colonnato di Gian Lorenzo Bernini in piazza San Pietro. Qualche ora dopo un incendio ha distrutto il gassificatore ed altri due impianti, alzando nel cielo una nube nerastra, in parte diossina. Due eventi collegati da un filo rosso: il prolungato indecisionismo, una paralisi che da una ventina d’ anni accomuna una intera classe dirigente, non solo Pd.

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