Fonte: La Stampa
L’esistenza di Dio, la morte, la matematica: i miei incontri con Benedetto XVI
La sera del 28 febbraio 2013, poche ore prima di cessare di essere papa, Benedetto XVI disse alla folla di Castelgandolfo che lo salutava: “Ormai sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa Terra”. Credeva allora, a ottantasei anni, che la morte gli fosse vicina, e sicuramente non pensava che avrebbe invece ancora vissuto così a lungo.
Quando lo incontrai per la prima volta, il 13 dicembre di quello stesso anno, immaginavo che non l’avrei più rivisto, perché sembrava fisicamente fragile e mentalmente prostrato. Lui stesso, quando gli proposi di rivederci per il Natale dell’anno dopo, mi rispose: “Se sarò ancora vivo”. Ma quando tornai da lui per la seconda volta, il 15 marzo 2015, lo trovai rinato. Stare lontano dalle preoccupazioni della Curia, evidentemente gli aveva infuso nuove forze.
La morte è stata comunque uno dei fili conduttori dei nostri incontri e delle nostre lettere: in particolare nell’annus horribilis 2020, quando Ratzinger perse il fratello, e io mia madre. D’altronde, sappiamo tutti e da sempre di essere «a scadenza», e soltanto il come e il quando ci è ignoto. Ma un credente e un ateo guardano alla morte in maniera molto diversa, e proprio di questo abbiamo parlato, più di una volta.
Un ricordo di Joseph Ratzinger deve però necessariamente toccare brevemente i tre aspetti fondamentali della sua figura: l’uomo, il teologo e il papa. Su quest’ultimo il giudizio lo darà la Storia, ma non è difficile immaginare che sarà fondato su due aspetti: la tragicità del suo papato, e la novità delle sue dimissioni.
Benedetto XVI pensava e sperava di poter rimediare alla secolarizzazione dell’Occidente e alla perdita di fede dell’Europa rivolgendosi agli intellettuali come lui. Il famoso discorso di Ratisbona del 2006 era indirizzato «ai rappresentanti della scienza», e citava per ben 45 volte la parola «ragione». Anche se poi attirò l’attenzione dei media per motivi diversi: in particolare, per un’improvvida citazione contro gli islamici, che costrinse il papa a chiedere pubblicamente scusa e a fare marcia indietro.
La vera tragedia di Benedetto XVI fu che gli intellettuali europei non lo stettero a sentire. Coloro che lui pensava di attirare con la sofisticazione del proprio pensiero, evidentemente non erano interessati ai suoi discorsi, anche se essi contenevano molti punti e spunti sui quali si poteva discutere.
Che il papa emerito fosse ancora legato a Ratisbona lo conferma la lunga risposta che mi diede nel 2016, quando in occasione del decennale del suo discorso gli mandai una mia ancor più lunga critica. In particolare, con me Benedetto XVI tornò sull’argomento della violenza delle religioni. E, a riprova della sua apertura mentale, mi rimandò ai lavori dell’egittologo Jan Assmann, «che da tempo sostiene la tesi che il monoteismo, con la sua pretesa di verità, genera violenza».
Per colmo dell’ironia, gli stessi intellettuali occidentali che snobbarono le aperture di Ratzinger, considerandolo soltanto un conservatore o un reazionario, sono poi caduti come facile preda nella rete della predicazione di Francesco, che in realtà è rivolta a «salvare il salvabile»: cioè, a concentrarsi sui popoli del Sud America e dell’Africa, abbandonando l’Europa al proprio destino.
Evidentemente, Ratzinger aveva sopravvalutato gli intellettuali europei, e in particolare italiani, che hanno dimostrato di essere più sensibili al linguaggio gesuitico di Francesco che al sofisticato pensiero di Benedetto XVI, benché il primo sia rivolto ai popoli del Terzo Mondo, e il secondo fosse rivolto a loro.
Lo dimostra anche il fatto che Ratzinger è stato sistematicamente considerato dai media un conservatore, e Francesco un progressista, mentre ci sono ottimi motivi per ridimensionare entrambi i giudizi.
Basta leggere la famosa Introduzione al Cristianesimo, che Ratzinger scrisse nel 1968, per rendersi conto di quanto essa fosse molto più avanzata di molta della teologia da cassetta che va di moda oggi. Fu quel libro che Karol Wojtyla lesse quand’era cardinale, e di cui si ricordò quando divenne papa. Ed è grazie a quel libro che Ratzinger iniziò una carriera che lo portò a diventare il braccio destro di Giovanni Paolo II, prima, e il suo successore, poi.
Più modestamente, anche il mio rapporto con Benedetto XVI è nato dalla lettura di quel libro, che mi spinse a scriverne un commento «capitolo per capitolo» nel mio Caro papa, ti scrivo. Dopo le sue dimissioni gliene feci avere una copia, lui mi rispose con una lunga lettera, e così iniziò la nostra frequentazione.
Naturalmente, non sta a me giudicare se Ratzinger sia veramente il più grande teologo cattolico del Novecento, come molti dicono. Se verrà chiamato Magno, come Gregorio I e Leone I, come qualcuno sussurra in Vaticano. E se sarà prima o poi proclamato «dottore della Chiesa», come deduco io.
Quello che posso dire, personalmente, è che Ratzinger a me è apparso come un uomo gentile, delicato, raffinato e stimolante. E, soprattutto, genuinamente interessato al dialogo e al dibattito, anche su temi che si potrebbero considerare spinosi per un cristiano, e soprattutto per un cattolico.
Nelle nostre conversazioni e lettere abbiamo toccato gli argomenti più disparati: dalla prova ontologica dell’esistenza di Dio alla matematica, dall’aneddotica vaticana alla letteratura tedesca. E spesso non sono mancate le battute spiritose, da parte sua.
Una volta, ad esempio, osservando la magnifica vista ravvicinata della cupola di San Pietro, che incombeva da una finestra del Monastero Mater Ecclesiae, mi venne in mente che nel Settecento i problemi di stabilità avevano costretto l’architetto Vanvitelli a imbragarla con cerchioni di ferro. Per fare una battuta, dissi che se ora la cupola stava in piedi, era per grazia dei matematici. E lui rispose prontamente: «E anche di Qualcun altro».
Non sono mancate neppure le reciproche tirate d’orecchie, quand’erano necessarie. Ad esempio, nella sua prima lettera il papa emerito mi scrisse: «Ciò che lei dice sulla figura di Gesù non è degno del suo rango scientifico». Questo mi spinse ad approfondire l’argomento, e in una lettera successiva gli potei riferire che vedute analoghe erano «evidentemente degne del rango scientifico di vari addetti ai lavori protestanti, anche nel XXI secolo».
Anche dopo la pubblicazione dei resoconti dei nostri incontri e della nostra corrispondenza nel libro In cammino alla ricerca della Verità, il cui titolo è un’espressione di Benedetto XVI stesso, i nostri rapporti non si sono interrotti. Tramite monsignor Gänswein, il suo segretario, gli ho fatto avere messaggi e lettere: l’ultima il 21 dicembre scorso, giorno del mio Solstizio d’Inverno, con gli auguri per il suo Natale.
Ora forse è giunto il momento di augurargli serenamente per l’ultima volta Buon Cammino, come dicono i pellegrini della Via Lattea. Sono sicuro che per un credente, che spera di «tornare alla casa del Padre», l’ultimo passo sarà più lieve che per un ateo, che sa che la sua meta finale è l’uscita definitiva dal mondo.