Fonte: La Stampa
L’annunciata nomina di Pietrangelo Buttafuoco alla presidenza della Biennale, con i commenti d’ogni osservanza che ne sono seguiti, è una perfetta cartina di tornasole dello stato di (non) salute di questa sfortunata Penisola. Abbondano infatti, con deprimente simmetria, da un lato i gridolini di esultanza di chi celebra l’avvento della Destra alla testa della maggiore impresa culturale italiana; e dall’altro i preoccupati anatemi di chi, a nome di un’altrimenti evanescente Sinistra, si veste a lutto vedendo ricordati nel curriculum del neo-presidente il Msi (e l’Islam). Dominano, insomma, le appartenenze; sfumano nella nebbia le competenze. Non manca chi (come in queste pagine Alberto Mattioli) abbia l’elementare saggezza di dire che «gli amministratori si giudicano non da quello che pensano, ma da quello che fanno». Ma prevale, in sospetta armonia bipartisan, il riflesso condizionato più diffuso nella politica (e, temo, nella cultura) italiana: gli “amici”, o creduti tali, hanno sempre ragione, i nemici non possono che sbagliare.
Ma se parliamo di competenze, proviamo a dire quali. La Biennale ha più di cent’anni, e nel suo settore è fra le più importanti istituzioni del mondo. Basti a misurarlo la diffusione planetaria della parola italiana “biennale” a designare mostre d’arte di particolare rilevanza (si sono così viste la Biennale di Istanbul e quella di São Paulo, la Biennale di Parigi e quella di Berlino). Comporta un’organizzazione di eccezionale complessità, dove alle sezioni più note, arte e architettura ad anni alterni e la Mostra annuale del cinema, altre se ne affiancano centrate sulla musica, il teatro, la danza; per non dire degli archivi e della ricerca necessaria per ciascuno dei rami di attività. Non basta. La Biennale ha avuto la fortuna di esser presieduta per tre mandati consecutivi da Paolo Baratta, che l’ha guidata con eccezionale intuito culturale e competenza manageriale, definendone lo status amministrativo e giuridico di soggetto autonomo e realizzandone una straordinaria espansione. Sulla stessa linea si è mosso il suo successore Roberto Cicutto, il cui mandato è ora in scadenza. Il crescente successo della Biennale in questi anni è sotto gli occhi di tutti, e un fattore determinante è stata la continuità fra i due ultimi presidenti.
Perciò quel che più sorprende e preoccupa dei commenti venuti dalle destre è lo sgangherato principio secondo cui “era necessario un cambiamento”. Necessario perché? E quale? Proseguendo e accrescendo i successi degli ultimi anni, o silurandoli? Di generico “cambiamento” si parla da sempre: nel 63 a.C. anche Catilina voleva il cambiamento a ogni costo, era rerum novarum cupidus. Il guaio è che ci sono cambiamenti per il peggio (per esempio il fascismo) e cambiamenti per il meglio (per esempio la Resistenza). E c’è ogni volta, anche oggi, qualcuno che pensa il contrario (viva il fascismo, abbasso la resistenza). Ma a Roma, da Catilina ai nostri giorni, lo slogan di un non-definito “cambiamento” resta sempre di gran moda.
E c’è un “poi”. La Biennale è un importantissimo ente a livello nazionale e con una risonanza mondiale. Ma è anche un’istituzione di Venezia: una città in strepitosa crisi demografica, economica, sociale, che ha perso negli ultimi cinquant’anni i due terzi dei cittadini, e conosce ancora un’emorragia senza rimedio, calando ogni anno di mille abitanti. Ci stiamo rassegnando a credere che questa miracolosa città, unica al mondo non per comoda retorica ma perché lo è davvero, debba essere solo una meta turistica, un’icona da visitare per obbligo, e che i pochi veneziani rimasti debbano dedicarsi ad attività sostanzialmente alberghiere. Una delle città più creative d’Europa, la Venezia di Tiziano e di Vivaldi, rischia di ridursi a desolante dormitorio in un parco a tema. Per rimediare a questo degrado le istituzioni pubbliche, dallo Stato alla regione al comune, nulla han fatto da decenni (e anche qui destra e “sinistra” vanno a braccetto). Il crescente successo della Biennale negli ultimi due decenni è, con il prestigio delle università e di altre istituzioni culturali di Venezia (come Fondazione Cini), il maggior segnale che un’altra strada è possibile. La strada di una Venezia creativa, capace di impiegare i giovani migliori (scelti, si spera, in base alle competenze), dovrebbe innescare le politiche di una residenzialità per i più giovani e i meno abbienti, che ricostituisca un tessuto socio-culturale che va disfacendosi.
Nulla di questo ultimo punto è scritto, scommetterei, nella job description del presidente della Biennale; ma molto in questa direzione hanno fatto Baratta e Cicutto. Ed è anche su questo terreno che si misurerà il successo o l’insuccesso del nuovo presidente. Lo si vedrà alla prova del fuoco (non è un gioco di parole) della gestione della Biennale progetto dopo progetto, giorno dopo giorno, sfida dopo sfida. E la prova del fuoco è anche non farsi guidare da fedeltà di partito, ma dal DNA della Biennale in Italia, dal suo successo nel mondo e dal suo destino negli anni a venire. E, non ultimo, dal contesto difficile ed entusiasmante di Venezia.


