Autore originale del testo: Ida Dominijanni
Fonte: facebook
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Sapevo che a Toni non restava molto tempo. Me l’aveva detto Anna, a settembre: “chiamalo, gli farà piacere”, aveva aggiunto. Non l’ho chiamato: non ho trovato il modo giusto. Non ci sentivamo mai, da quando a me non capita più di andare a Parigi come facevo un tempo per incontrare Rossana Rossanda, e temevo che avrebbe preso la telefonata per un congedo. Però ci eravamo visti via zoom, pochi mesi fa, a un seminario su guerra e globalizzazione organizzato da Sandro Mezzadra. Respirava a fatica, con l’ossigeno, ma era stato come sempre allegro e affettuoso, e come sempre aveva seguito tutti gli interventi attentamente – mi ha sempre colpito quella sua qualità dell’ascolto di chiunque parlasse e quegli appunti che prendeva diligentemente, una qualità degli intellettuali veri, cioè di quelli, pochissimi, che sanno di non bastare a sé stessi.
Non avevo conosciuto Toni Negri negli anni 70, quando peraltro ero molto distante dall’Autonomia, e ne avevo una sorta di reverenziale timore. Poi, una splendida mattina di primavera, sul prato della casa di una mia amica fiorentina arrivarono i giornali con la notizia degli arresti del 7 aprile e il Mostro, lui, in prima pagina sull’Unità insieme con altri compagni e compagne di Potop e dintorni. Non ci volle più di qualche secondo per afferrare l’impianto del teorema, e per capire che in gioco c’era la libertà di tutti e non solo quella dei diretti interessati. Stavo per laurearmi, un anno dopo mi sarei trasferita a Roma, e la mia scelta di andare a lavorare al manifesto con Rossanda fu dovuta anche al desiderio di sostenerla nella sua ferma determinazione di smontare quel teorema.
Conobbi Toni durante il processo, fugacemente, e meno fugacemente Paola, sua moglie, che veniva al giornale quasi tutti i giorni. Poi ci fu la campagna – molto ostacolata anche dentro il manifesto – per eleggerlo in Parlamento, poi la sua fuga in Francia e gli anni dell’esilio parigino, con un gran corteo di amici che andavano a seguire i suoi seminari. Io non ne facevo parte, e devo a Toni la costruzione della nostra amicizia, una volta che lui decise di rientrare a Roma e di scontare il carcere, con a fianco Judith, che conoscevo da quando, giovanissima studiosa di Foucault, aveva preso a collaborare con il giornale, e che non mancò una sola visita a Rebibbia finché Toni non uscì definitivamente dal tunnel. Abitavamo vicini, io a Testaccio e loro a Trastevere in una casa molto bella dove ci accoglievano a cena per parlare e discutere di tutto, “io sono un animale sociale”, diceva Toni. Erano gli anni di “Impero”, Michael veniva spesso dagli Stati uniti, ci godevamo tutti insieme il successo internazionale di quel libro magnifico che l’editoria italiana ci mise un bel po’ ad accettare (“Toni Negri mai”, mi disse all’epoca un editore di sinistra; infatti il libro uscì per Rizzoli). Furono anche gli anni in cui maturò quel piccolo capolavoro che è “La differenza italiana”, dove Toni colse perfettamente, con mia stupefazione, l’essenziale del pensiero della differenza sessuale.E furono anche gli anni, dopo il G8 di Genova, in cui presero corpo i primi e spumeggianti seminari di Euronomade in giro per l’Italia.
Durò poco, perché Toni e Judith decisero presto di lasciare Roma per Venezia prima, per Parigi poi. Dopo, non hanno mai smesso di mancarmi, e non ho mai smesso di pensarli ogni volta che passo il ponte e arrivo sotto la loro vecchia casa.
Di Toni mi si erano intanto rivelati i lati insospettabilmente teneri, le radici ben piantate in una storia della sinistra italiana più lunga della mia, la sua fobia per la guerra risalente ai traumi dell’infanzia, la sua emozione ogni volta che saliva in cattedra per fare una lezione. E altri lati insospettabili, tipo un acume psicologico rivelatore della sua curiosità per gli altri. Una volta mi svegliò con una telefonata alle 8 del mattino preoccupato per la notizia di una incipiente storia d’amore fra un amico e un’amica comuni che non lo convinceva (quella storia dura ancora: aveva torto). Un’altra volta, eravamo in tanti in una trattoria di pesce a Venezia, mi prese in castagna sulla gelosia, “Ida è gelosa di tutti, maschi femmine amanti fidanzati amici”: aveva ragione. Naturalmente, abbiamo molto litigato e sempre sulle stesse cose: io gli rimproveravo una filosofia troppo euforica e la rimozione del negativo, lui mi dava della vetero-plato-freudo-lacaniana, che per lui era un difetto ma per me un complimento che incassavo volentieri.
Mi pare una magia che se ne siano andati nello stesso anno, lui e Mario Tronti. Da qualche parte nell’universo continueranno ad amarsi incondizionatamente e a litigare furiosamente, sull’autonomia del sociale e del politico, sul 68 alba o tramonto eccetera eccetera eccetera. Resta un vuoto pienissimo: di storia, di pensiero, di amicizia. E di certezza che la rivoluzione è sempre possibile. Judith e Anna, vi voglio bene.



