LA LINFA CHE NUTRIVA IL CIRCOLO DI JENA
Christiane Vulpus era la compagna di Goethe ma non poteva dormire nel Vecchio Castello perché non erano sposati. Quando August Wilhelm Schlegel pubblicò la sua opera omnia riconobbe a Caroline Böhmer di essere autrice di alcuni scritti, ma certamente non di tutti quelli che le spettavano, contrassegnandoli con un asterisco nell’indice.
Finché erano nubili, le donne erano vincolate per legge al volere del padre o di un parente maschio. Da coniugate, era il marito a decidere. Anche le idee illuminate di Rousseau sull’educazione dei bambini erano valide…. solo per i maschietti. Dorothea Veit crebbe tra libri e salotti letterari, era oltremodo intelligente, colta e capace di tenere testa ai più affamati pensatori. Benchè fosse figlia di un filosofo illuminista, il padre quando si era trattato del suo futuro si comportò come la maggioranza dei padri dell’epoca, con il risultato di un matrimonio infelice.
Questo il telone di fondo su cui pensano, amano ed agiscono gli spiriti che animano il Circolo di Jena a cavallo tra il secolo XVIII e XIX nel Ducato di Sassonia Weimar. Alle donne erano riconosciuti pochi diritti, dovevano essere miti, sottoposte e obbedienti. Tuttavia, le regole a Jena erano meno rigide e Sophie Mereau, per esempio, era riuscita a pubblicare un libro che difendeva libertà ed uguaglianza. Era l’unica donna a frequentare le lezioni di Fichte, e Schiller aveva pubblicato le sue poesie. La protagonista degli anni di Jena fu Caroline Böhmer-Schlegel-Schelling che portava il cognome dei suoi tre mariti ma si rifiutò sempre di essere incasellata nel ruolo che i costumi dell’epoca le volevano imporre. Fu scrittrice, traduttrice, critica letteraria e musa ispiratrice.
Un altro protagonista della vita spirituale di Jena fu Novalis, ammiratore di Fichte e della sua filosofia che gli appariva come un appello ad auto determinarsi. Si poneva però la domanda cruciale: se Io affermava sé stesso e creava allo stesso tempo il non-Io, da dove proveniva l’Io originale? Né la realtà né il mondo esterno potevano essere stati creati dall’Io, come da una bacchetta magica, ma dovevano per forza essere preesistenti. La forza di questa intuizione lo portò ad esclamare che la filosofia era in origine sentimento e percezione.
L’ammirazione per Fichte maturò in una critica, quando Novalis si chiese perché avesse ignorato l’amore, l’argomento per lui più importante in assoluto. Arrivò profeticamente a dire che la libertà e l’amore erano una sola cosa. Infatti, criticò Fichte per aver separato l’Io dal non-Io senza riuscire a riunirli. Secondo Novalis il non-Io doveva divenire “Tu”, così da diventare umano, perché l’amore è una forza che sintetizza. La teoria dell’amore per Novalis era la scienza più elevata.
Sia Novalis che il suo fraterno amico Friederich Schlegel andarono oltre la filosofia di Fichte. Il loro sodalizio passava spesso dalla ammirazione reciproca, alla critica, alla riappacificazione. Novalis parlava di un movimento in avanti e indietro in cui il soggettivo diveniva oggettivo, lo spirituale si tramutava in fisico, il particolare diventava generale. La filosofia non era una disciplina accademica solamente ma l’accompagnante della vita intera, era un illimitato processo di pensare il pensare, una riflessione continua sulla auto riflessione. Il suo tema preferito aveva lo stesso nome della sua sposa giovanissima Sophie, l’essenza della sua vita. Alla morte di Sophie a soli 15 anni desiderava morire, di seguire nella morte la sua amata, ma facendo ricorso alla sola forza di volontà, perché il suo Io era così forte da poterlo fare. Attribuì al suo spirito la forza di potersi uccidere durante le sue frequenti visite al cimitero, vivendo momenti di abbattimento alternati ad euforia quando si sentiva vicino alla sua amata. Era la visione artistica della morte. Tempo e spazio gli sembravano essere divenuti elastici, un lampo poteva espandersi e diventare secoli, il terreno tramutarsi in polvere. Tutto era uno e la forza unificante era l’amore, era il ponte tra il soggettivo e l’oggettivo, tra l’ideale e il reale.
La traduzione al tedesco fatta da August W. Schlegel e Caroline Böhmer del Romeo e Giulietta di Shakespeare era stata pubblicata a poche settimane dalla scomparsa di Sophie. Questa è più che poesia!: esclamò Friederich Schlegel. Il teatro di Shakespeare affascinava Novalis, Caroline e August, e passavano ore ed ore a leggere le sue opere perché il Bardo era simbolo del genio naturale. Se la poesia classica era semplice e chiara, l’arte romantica era più vicina al segreto dell’universo, era espressione dell’amore originale. August W. spiegò nei suoi scritti che il genio inglese non era stato compreso dai critici del diciottesimo secolo, in quanto lo stile di Shakespeare non seguiva i canoni classici ma era animato ed organico, nasceva da dentro, combinava natura ed arte, poesia e prosa, commedia e tragedia, terreno e divino. August W. Schlegel fu da allora considerato dalla critica inglese come lo scopritore di Shakespeare per le sue traduzioni, risultato della feconda collaborazione con Caroline Böhmer.
Friederich Schlegel conobbe Dorothea Veit in un salotto letterario ebreo, dove le persone venivano rispettate per l’intelletto e la personalità, mai per la posizione sociale, il genere o la ricchezza. La loro relazione divenne una eterna unione delle loro anime. L’obbiettivo di Friederich era quello di cambiare il mondo usando al posto delle spade le parole. Si trattava di una rivoluzione attuata attraverso le parole, in quanto il linguaggio plasmava le anime. La poesia romantica, scriveva Friederich Schlegel, è un poesia progressista, universale, mette la poesia a contatto con la filosofia, mescola ispirazione e critica, poesia dell’arte e poesia della natura, rende la poesia viva e sociale. Così intesa, la poesia poteva essere ogni cosa, un romanzo, un dipinto, un componimento musicale, una architettura, perchè è nel profondo di tutti noi. A cementare tutto vi è l’immaginazione, la più importante facoltà dell’anima, poiché la ragione da sola non è sufficiente a comprendere il mondo
I frammenti erano la forma espressiva prediletta da Friederich, quali semi da germogliare, ma anche di Novalis, il quale diceva che la sua natura era fatta di frammenti. Il suolo è povero, e bisogna spargere abbondantemente il seme per avere un modesto raccolto.
Facevano parte di quell’universo i fratelli Alexander e Whilelm von Humboldt oggetto insieme a Friederich Schelling di un prossimo studio.
Tratto dal luminoso saggio di Andrea Wulf “Magnifici ribelli. I primi romantici e l’invenzione dell’Io” dedicato al Circolo di Jena nella Sassonia.
FILOTEO NICOLINI
IMMAGINE: Caroline Böhmer-Schlegel-Schelling


