Ian Bremmer: «Trump si sente a suo agio quando firma contratti economici. Il suo limite è che l’America non ammette tutto il potere in mano a una persona. Nessun progresso su Gaza se non preme su Netanyahu»

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Francesco Semprini
Fonte: La Stampa

Ian Bremmer: «Trump si sente a suo agio quando firma contratti economici. Il suo limite è che l’America non ammette tutto il potere in mano a una persona. Nessun progresso su Gaza se non preme su Netanyahu»

NEW YORK. «La missione di Donald Trump ha una pronunciata connotazione geopolitica oltre a essere un viaggio d’affari. È espressione della sua agenda anti-globalista e di rilancio americano in partenariato col Golfo».

A dirlo è Ian Bremmer, fondatore di Eurasia Group, la principale società di consulenza mondiale sui rischi geopolitici, secondo cui il presidente degli Stati Uniti è difficile che incassi un successo sulla tregua a Gaza, «almeno sino a quando non metterà alle strette Benjamin Netanyahu».

“Donald d’Arabia” sembra il copione che Trump ha cucito su stesso tanto quanto sulla sua “America di nuovo grande”. Si tratta più di un viaggio d’affari o di una missione geopolitica?
«Entrambe le cose. È vero che Trump è entusiasta dei numeri e degli accordi che firma, ma il presidente sta facendo anche altro, ha speso un sacco di energie per liberare l’ostaggio israelo-americano nelle mani di Hamas. Non ha fatto mistero della fastidio nei confronti di Netanyahu riluttante ai negoziati per il cessate il fuoco. L’amministrazione americana è stata molto dura con gli Houthi in Yemen e adesso ha raggiunto una tregua, seppur condizionata alla fine degli attacchi sul Mar Rosso. Guardiamo anche alla fine alle sanzioni in Siria per scommettere su un nuovo regime. Occorre infine ricordare gli sforzi diretti a un negoziato con l’Iran, in particolare sul programma nucleare di Teheran. Ci sono molti elementi in gioco, per questo dico che la missione nel Golfo ha un carattere fortemente dicotomico».

«Gli Usa non possono arrivare a nessuna soluzione su Gaza senza l’intesa con Israele. Netanyahu rimarrà arroccato sulle sue posizioni almeno sino a quando Trump non deciderà di punirlo mettendolo alle strette come ha fatto con l’Ucraina quando ha sospeso il supporto militare e di intelligence, lo stesso da cui lo Stato ebraico dipendente. Per Bibi l’obiettivo non è solo liberare gli ostaggi, è distruggere Hamas, ma questo non è nell’interesse di Trump, questo è causa di frustrazione».

Trump ha parlato di «un futuro in cui il Medio Oriente è definito dal commercio, non dal caos; dove si esporta tecnologia, non terrorismo». Quasi fosse un nuovo ordine regionale. Il tycoon sta vestendo i panni della colomba di pace?
«Ciò che ha detto a Riad rientra perfettamente nel nuovo ordine anti-globalista che ha sempre promosso. In un altro punto del discorso ha spiegato che il motivo per cui la regione ha avuto successo è che gli Stati sovrani hanno attuato la propria visione e non hanno privilegiato i modelli provenienti dal resto del mondo. Io non credo a tutto questo, penso anzi che ci siano stati enormi benefici della globalizzazione e del libero scambio. Detto questo Trump è andato lì e ha detto voi volete “Prima il Golfo”, noi vogliamo “Prima l’America, in questo contesto ci troviamo tutti a nostro agio. È un messaggio molto diverso rispetto al passato. Del resto Trump vuole porre fine alle guerre, non vuole spendere così tanto per la sicurezza in Medio Oriente come gli Usa hanno fatto sino ad ora, e vuole concentrarsi sull’Asia».

 

C’è un “ma” in tutto questo?

«Il presidente vuole trascorrere la maggior parte del suo tempo nel Golfo a fare affari, francamente credo molti a livello personale, e non solo per il Paese e questo solleva conflitti di interesse. La cosa che lo entusiasmerà di più al ritorno negli Stati Uniti, tuttavia, è dimostrare che l’America trae beneficio da quella parte di mondo che macina petrodollari».

Avrà interessi propri, però ha portato nel Golfo la leadership della Corporate America. Non significa fare gli interessi del Paese?
«Sì, penso che questo sia un valore aggiunto rispetto alla precedente amministrazione. Joe Biden non si sentiva a suo agio a viaggiare con gli amministratori delegati delle grandi imprese. Non gli piaceva parlare con i leader aziendali, Trump invece è molto più a suo agio a farlo, con lui ci sono tutti, Wall Street, Silicon Valley, Automotive, New Economy. È un ambiente in cui si muove con destrezza».

Trump ha anche detto che «le scintillanti meraviglie di Riad e Abu Dhabi non sono state create dai cosiddetti nation-builder, dai neo-conservatori o dalle organizzazioni no-profit liberal». Che tipo di America propone in questo nuovo mondo multipolare?
«Trump sta cercando di tornare alla legge della giungla, dove i potenti fanno quello che vogliono e i deboli quello che devono fare. Il punto è che gli Stati Uniti sono ancora l’economia e la forza militare più potente al mondo, ma non hanno molto potere nelle mani di una sola persona, che possa guidare le decisioni. Ci sono grandi contrappesi al presidente Usa in democrazia, le politiche cambiano ogni quattro anni, quindi la sua capacità di ottenere i risultati che desidera è limitata rispetto, ad esempio, alle monarchie del Golfo. Ed è anche limitata da una mancanza di competenza e di interesse per i dettagli rispetto ad altri governi che sono più efficaci. È per questo che ha avuto successi in alcuni campi, ma ha anche dovuto fare marcia indietro su altri, come sul commercio con la Cina».

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