Perché il lavoro non è un privilegio

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Chiara Saraceno
Fonte: La stampa

Perché il lavoro non è un privilegio

Le legittime proteste per le condizioni di lavoro di molti, per lo più giovani, ma non solo, che lavorano stagionalmente nel turismo – come bagnini, animatori, camerieri – sollevano questioni diverse.

Una riguarda gli orari di lavoro e il rapporto tra gli orari effettivi e quelli contrattuali. Anche a chi non è assunto totalmente in nero, quindi senza contratto e senza contributi assicurativi e previdenziali, spesso capita di dover lavorare molte più ore di quelle da contratto e queste non sempre vengono pagate, o non per intero, tanto meno come straordinario.

Un’altra questione riguarda il livello di paga, per lo più basso, previsto anche dai contratti, legali, prevalenti in questo settore, contratti per lo più firmati da sindacati minori, con poca rappresentanza, che contano sul fatto che questi lavoratori, stante la stagionalità e talvolta l’occasionalità del loro rapporto di lavoro, non sono organizzati ed hanno scarsa forza contrattuale.

Una terza questione riguarda il fatto che, proprio per la stagionalità e collocazione sul territorio di queste attività, la forza lavoro spesso non risiede abitualmente nella località in cui lavora. A chi deve spettare, o come va diviso il costo del vivere in trasferta per poter lavorare? Ovviamente il costo dell’abitare e del mangiare è una voce sostanziosa per tutti i lavoratori, anche per quelli che risiedono vicino al posto di lavoro. Non è perciò corretto calcolare la ricompensa oraria netta dopo aver detratto non solo tasse e contributi, ma anche le spese per vitto e alloggio. Anche se fare questo esercizio consente, non solo ai lavoratori del turismo, di valutare l’adeguatezza del salario rispetto al costo della vita. Nel caso dei lavoratori stagionali “fuori sede”, tuttavia la questione presenta una sua specificità, perché i costi sono aggiuntivi rispetto a quelli sostenuti nel resto dell’anno (e nel caso di giovani che normalmente vivono in famiglia sono del tutto nuovi). D’altra parte, senza questi lavoratori che vengono da fuori molti villaggi turistici, alberghi, ristoranti, lidi, ecc. non potrebbero rimanere aperti. Quindi la questione del vitto e dell’alloggio deve essere affrontata e negoziata in modo chiaro nei contratti, per quanto riguarda sia la qualità, sia il rapporto con la paga oraria, settimanale o mensile che sia.

Se il valore del cosiddetto comfort pack (vitto e alloggio) offerto da molte aziende turistiche ai propri dipendenti non residenti equivale a metà o più di uno stipendio già modesto, è comprensibile che qualcuno ritenga che il gioco non valga la candela, ancor più se le condizioni abitative sono poco confortevoli. Anche se sono sicuramente migliori di quelle offerte da molti caporali ai lavoratori stranieri per la raccolta della verdura e della frutta, cui decurtano il salario per l’acqua che bevono mentre lavorano, il trasporto al lavoro e le sistemazioni di fortuna, troppo spesso impongono promiscuità indesiderate e condizioni di vivibilità non (più) accettabili. Inutile rivangare il buon tempo antico, romanticizzato sia da chi ha dovuto a suo tempo accettare condizioni pesanti sia, soprattutto, da chi ne è sempre stato protetto. Non è più il tempo né delle mondine né dei lavoratori trattati come fossero in caserma.

L’idea che lavorare sia un privilegio di cui essere grati e da accettare ad ogni condizione, che traspare da alcuni commenti sui giovani che non hanno voglia di lavorare e non sono capaci di adattarsi, purtroppo è invece molto diffusa. Lo è particolarmente nei settori occupazionali “creativi” (la ristorazione, la moda, il giornalismo, la comunicazione) e/o del divertimento, turismo in primis, dove sembra che fare un “lavoro bello” o divertente (per gli altri) debba costituire una ricompensa in sé. Ma lo è anche in altri campi (si pensi ai tirocini infiniti). Per chi non ha alternative, assume la forma del ricatto.

Bene, dunque, che la questione venga sollevata e vista nella sua complessità ed anche tenendo conto della specificità di un settore che (come l’agricoltura) per funzionare ha bisogno di lavoratori non solo stagionali, ma almeno in parte non stabilmente residenti. Un salario minimo legale, l’eliminazione del nero, orari certi e rispettosi del diritto al riposo e alla vita personale, sono elementi indispensabili, ma non sufficienti. Occorre anche che nei contratti vengano affrontate le questioni del costo del lavoro in trasferta come costo che non può essere sostenuto solo dai lavoratori e della qualità delle sistemazioni abitative offerte.

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