PD, voto di fiducia e la responsabilità della scissione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Fonte: facebook

di Alfredo Morganti 7 ottobre 2014

“Mi annoia quel lungo tavolone e quelli dentro che chiacchierano, chiacchierano”. Lo ha detto Renzi in tv a proposito degli incontri con le parti sociali. Non è una battuta, ma una rappresentazione plastica del renzismo, una sintesi mirabile del suo pensiero. È vero, il premier preferisce i discorsi ripresi dalla tv, le inondazioni di hashtag, un bel selfie, preferisce cazzeggiare sulla chat piuttosto che restare ore a discutere con dei sindacalisti, magari approfondendo temi e tentando soluzioni condivise. Soffre, probabilmente, di crisi di attenzione, è compulsivamente attratto dal suo smartphone (come molti politici oggi), non regge tempi più lunghi dei pochi minuti che concede agli altri (a meno che non si tratti di riunioni del Patto, lì si che scattano i profluvi di tempo). La sua disintermediazione è un modo per accorciare, rendere istantanei i tempi, saltare i consessi. È la patologia tipica di ogni leader che adori soltanto le proprie decisioni: vorrebbe che sgorgassero affrancate, come canti liberi in un mondo che non ci vuole più. Renzi è uno che punta ad avere mani sciolte, che non ama le chiacchiere, che della democrazia preferisce la versione più light possibile, più dimagrita. Consistente in questo schema procedurale standard: il premier annuncia qualcosa di rivoluzionario di solito in sedi extraistituzionali come un raduno scout (con tutto il rispetto), il Parlamento scatta come un sol uomo e in quattro e quattr’otto approva una delega in bianco, il governo sforna i decreti e decide al volo. Intanto, le parti sociali giocano a Burraco ma approvano a scatola chiusa. Schema semplice ed efficace, che finalmente cancella il discussionismo che tanto disturba il premier quando tuitta in scioltezza col Popolo sovrano.

Questo giochino funziona meglio se le istituzioni vengono messe in sonno. Se la disintermediazione è completa. Se ai corpi intermedi non concedi nemmeno un’ora del tuo tempo, per di più ricavata tra un annuncio e l’altro. E soprattutto se la mutazione genetica del PD fosse diventata totale e irreversibile. Se la sinistra interna si scindesse. Se lunga e diritta corresse la strada, senza più opposizione. È tutto qui il punto delicato. Ama così tanto la solitudine dei propri numeri primi, che sono certo Renzi punta a liberarsi davvero della minoranza interna al più presto. A sciogliersi le mani del tutto. Non si capisce, altrimenti, l’accelerazione sul jobs act. Non c’è solo l’Europa insomma a dettare i tempi, ma pure la propria ambizione. Renzi lo sa che, senza D’Alema-Bersani- Cuperlo-Fassina e compagnia cantante, il PD aprirebbe i confini a destra, dilagherebbe da quella parte e, soprattutto, farebbe abbassare le armi in via definitiva a Berlusconi. Ecco il mio uomo, lo riconosco finalmente, direbbe l’ex Cav. Il superpartito diventerebbe meno clandestino, più sfacciato. Per questo la partita interna al PD è davvero molto delicata, perché è foriera di un tale possibile sbandamento a destra del PD da lasciare spiazzati per anni.

A mutazione genetica completata, a scissione eventualmente compiuta, il PD rischierebbe di diventare (più di ora) una sbuffante locomotiva di centro/centrodestra, l’effige vera del superpartito, lanciata a folle corsa verso le prossime elezioni anticipate con una sinistra rabberciata e ridotta a una bassa percentuale di testimonianza. A febbraio, con molta probabilità gli italiani riceveranno 1200 euro in busta paga, quale anticipo annuale del TFR. A febbraio, dico. A poche settimane da un eventuale voto anticipato, che sarebbe la soluzione più comoda per un premier sommerso da un eccesso di incauti annunci e da troppa zavorra ‘riformistica’ (per non parlare della UE, che morde alle caviglie). Certo, servirebbe (finalmente!) qualche seria contromisura a questa voglia di scissione di Renzi, a questo suo desiderio di ‘cacciarci’ (oppure di tenerci in ‘bambola’), non solo farsi scudo della ‘responsabilità’ nei voti di fiducia. Perché l’immobilismo non paga mai.

Epperò, se la sinistra decidesse di rialzare il capo e uscire dal loop delle ‘fiducie’ forzose, dovrà farlo con molto coraggio, molte risorse a fronte di pochi seggi parlamentari, molta convinzione perduta, moltissima pazienza, una grande combattività, un rinnovato entusiasmo, una leadership di traghettamento che dovrebbe nel tempo diventare una nuova leadership a tutti gli effetti. Ben sicuri che si tratterebbe di una lunga marcia, rischiosa, incerta, non di una folgorazione sulla via di Damasco a incasso immediato. C’è voglia di fare questo? C’è il coraggio giusto? Perché è questa la condizione nel caso si volesse cedere al desiderio del premier di cacciarci definitivamente, donandogli di fatto il Partito Democratico (o, meglio, il suo brand). La scissione (diciamo un nuovo partito progressista, di sinistra democratica) è davvero un atto di grande responsabilità. Ben più grande, ben più faticoso, di alzare la manina disgustati in Parlamento alla ‘chiama’ della fiducia. Serve davvero molta convinzione e non bisogna certo aver paura di mollare lo scranno parlamentare. Sennò, pensateci bene e amici come prima.

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