Fonte: InfoSannio
Albanese: tra giustizia e percezione pubblica
Quando Francesca Albanese ha pronunciato la parola “genocidio” il 28 marzo 2024, non ha semplicemente espresso un giudizio. Ha assunto una posizione. Il suo sguardo, la sua voce, la sua fermezza hanno trasformato un momento istituzionale in un gesto simbolico.
Da quel giorno Albanese non è stata più soltanto una giurista: è diventata un riferimento, amato e contestato. Il suo ruolo come relatrice speciale dell’ONU per i Territori palestinesi occupati le ha conferito visibilità. Tuttavia è la coerenza con cui ha sostenuto le sue idee che l’ha resa riconoscibile.
Ha denunciato violazioni, sfidato narrazioni dominanti, affrontato critiche e pressioni. Eppure non ha mai smesso di esporsi. Non è questo il luogo per giudicare le sue posizioni politiche. Piuttosto è utile riflettere su un aspetto spesso trascurato: il modo in cui la comunicazione pubblica influisce sulla percezione della giustizia.
Infatti non è solo cosa si dice, ma come lo si dice, che determina l’effetto. Albanese ha uno stile sobrio, controllato. Non indulge in emozioni facili. Alcuni lo interpretano come freddezza, altri come rigore. Tuttavia quando la forma è troppo distante, anche il messaggio più urgente può sembrare costruito.
In un’epoca in cui la giustizia compete con l’intrattenimento, la forma diventa sostanza. Aristotele ci ricorda che la forma realizza la sostanza, ne è il principio attivo. Ma nel mondo contemporaneo, come ha osservato McLuhan, il mezzo ha preso il sopravvento sul contenuto: “il medium è il messaggio”. E in questo rovesciamento si gioca molto del destino comunicativo di Albanese.
La sua evoluzione mediatica lo dimostra: dai comunicati ufficiali a video virali, interviste mirate, dichiarazioni calibrate. Per alcuni è strategia, per altri è necessità. In ogni caso il passaggio dalla parola scritta alla presenza visiva ha amplificato la sua figura, rendendola oggetto di interpretazioni contrastanti.
Le critiche non mancano. C’è chi la accusa di ideologismo, chi ne mette in dubbio l’imparzialità. Eppure i suoi report non contengono odio, e molte voci autorevoli ne difendono l’operato. In un contesto che spesso marginalizza il dissenso, la sua voce resta rara.
Sui social il suo impatto è evidente: milioni di interazioni, sentimenti polarizzati. La candidatura al Nobel per la Pace, sostenuta da centinaia di migliaia di firme, lo conferma. E quando di recente ha denunciato l’attacco alla nave “Family” al largo di Tunisi, ha dimostrato che le sue parole si traducono in azione.
Francesca Albanese è una figura difficile da incasellare. Non è una martire, né una diva, né una semplice funzionaria ONU. È una presenza che inquieta e interroga. Non si limita a parlare: obbliga a reagire.
Come accade con certe figure pubbliche che catalizzano il dibattito, da Greta Thunberg a Elly Schlein, alla stessa Marine Le Pen, la sua forza non sta solo nei contenuti, ma nella capacità di generare attrito, di rompere l’equilibrio.
Il sentimento di giustizia che la anima non è lì per rassicurare. Non cerca consenso. Quando disturba, non è un errore: è un segnale. Il problema non è ciò che viene detto, ma ciò che non vogliamo ascoltare. E forse più che comprenderlo dovremmo smettere di addomesticarlo. Come si fa con i pulli di pappagallo cinerino.


