di Fiore, 21 marzo 2017
Ah, i mitici anni settanta. Mitici? Insomma, non erano male.
Ribellarsi è giusto, così si diceva, poi, se ci si capiva qualcosa o meno, questo sarebbe da discutere caso per caso. Qualcuno era comunista perché la borghesia il proletariato la lotta di classe, diceva Gaber che aveva ben capito cosa si agitasse in tante zucche disabitate. Non si può pretendere che tutti, proprio tutti, avessero chiaro in mente il progetto politico, ma potevano avere la rivoluzione nel cuore. A prescindere.
Ho già dedicato un pezzo all’argomento: “La cultura borghese fa acqua”. Oggi vi narrerò di Angelino, del povero Angelino che mai si sarebbe tirato indietro ma che se fosse rimasto da solo sarebbe tornato niente più di quello che era.
Dunque, Angelino, detto il Barone, era povero e, naturalmente, ignorante. Faceva lavoretti da imbianchino e, all’occorrenza, si improvvisava muratore. Quanto gli bastava per sopravvivere, poi gli capitò una grande occasione: c’era un’occupazione di case alla Magliana, quartiere sorto a metà degli anni sessanta. I palazzi erano stati costruiti sotto il livello del Tevere, uno dei tanti scandali edilizi della Città Eterna, eterna come la corruzione che la divora. Così erano sorti comitati per la casa, lo stesso SUNIA incitava all’autoriduzione degli affitti, c’era una specie di Far West da conquistare, e Angelino era partito alla conquista del suo pezzo di sogno: una casa tutta sua. E l’aveva ottenuta, ma si sentiva solo, lontano dal suo ambiente, in un quartiere ancora privo dei servizi essenziali ma in cui le istanze sociali montavano disordinatamente e in ogni direzione. E Angelino era confuso tra tanta agitazione, così, ogni tanto, faceva ritorno nel suo vecchio quartiere e veniva a trovarci, per sentirsi veramente a casa.
Un giorno arrivò malconcio, molto malconcio, un bell’occhio nero e altre ecchimosi raccontavano, priva ancora che ce lo spiegasse, che lo avevano pestato. Ci stringemmo intorno a lui per confortarlo, e ci raccontò la storia.
Si dava il caso che le femministe avessero sentito il bisogno di una sede in cui riunirsi, ma non volevano perder tempo a cercarsene una, avevano semplicemente pensato di costruirsela. Se l’esproprio proletario poteva esser praticato sulle case, perché non sul suolo pubblico? si erano chieste. La risposta era ovviamente sì, e così si erano date da fare per procurarsi tavole e mattoni, non senza aver prima ingaggiato Angelino. Lui, a dire il vero, non era molto convinto dell’iniziativa e aveva provato a muovere, sommessamente, qualche obiezione. Sei un compagno o no? era stata la domanda perentoria che lo aveva costretto ad accettare, quale onta per lui se si fosse tirato indietro. E così, in uno spazio teoricamente destinato a giardino pubblico, aveva iniziato a edificare il fortino dal quale il movimento per il riscatto femminile avrebbe preso le mosse in quel quartiere. Non durò molto il suo industriarsi, un paio d’ore dopo era già seduto su una sedia del commissariato di polizia.
Faceva caldo, le finestre erano aperte, e lo stavano torchiando, ma Angelino che scemo del tutto non era, aveva elaborato una tesi difensiva abbastanza convincente, almeno così pensava lui.
“E io che ne so chi sò quelle, m’hanno detto: Angelì c’è da lavorà, io faccio il muratore, me so messo a lavorà, devo magnà pure io, o no?”. Se l’era quasi cavata.
Improvvisamente dalle finestre arrivò un clamore inaspettato: fischietti, rulli di bidoni, slogan inneggianti alla dittatura del proletariato. Le femministe si erano mobilitate per strappare Angelino dalle mani dei padroni. Arrivarono sotto al commissariato, si schierarono, e con i megafoni a tutto volume iniziarono a scandire: ANGELINO LIBERO! ANGELINO LIBERO!
“E le guardie m’hanno detto: ah, così tu non le conosci quelle?
M’hanno gonfiato come ‘na zampogna”.
Povero Angelino, una delle tante vittime della rivoluzione.


