In ricordo di Aris Accornero

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 25 ottobre 2018

Sono così stralunato che solo oggi, leggendo il necrologio di Tronti, ho appreso la notizia della morte di Aris Accornero. Lo conobbi da vicino all’inizio degli ’80, quando fui chiamato a collaborare a due ricerche da lui coordinate (L’Identità comunista, Editori riuniti e Il Partito comunista italiano, Annali fondazione Feltrinelli) e poi ancora nelle periodiche riunioni redazionali di Laboratorio politico. Un’epoca, gli ’80, per quanto di transizione, nella quale ancora vigeva il lavoro intellettuale come ingaggio politico esistenziale e, a rovescio, l’appartenenza politica come passione intellettuale. E un uomo come Accornero, con alle spalle una vita da operaio comunista nella Torino vallettiana poteva arrivare a rilucere, compiendo il suo percorso, come uno dei più raffinati esperti di sociologia del lavoro.

In quell’epoca ci si ritrovava al Cespe, in via della Vite, a Roma, nei pressi di Botteghe Oscure, l’istituto di ricerca voluto da Giorgio Amendola che nella galassia dei centri di produzione culturale del Pci ricopriva lo spazio della riflessione economico sociale, con una propria rivista, Politica ed economia, che si differenziava dal prevalente imprinting storico filosofico delle altre produzioni, Da Critica Marxista a Studi Storici per finire con Democrazia e diritto. Al Cespe Accornero era alloggiato in un piccolo studio, nel quale ci si ritrovava con Michele Magno, Renato Mannheimer, Mauro Calise e la Chiara Sebastiani. Era un uomo mite, pacato e ironico. Molto puntiglioso, e nel cassetto teneva una Texas instrument. Noi giovani ne sentivamo molto l’autorevolezza e il carisma.

Qualche anno fa l’ho rivisto a un convegno a Cetona dove invitato da Michele Prospero relazionavo assieme a Rita di Leo, e sulla bellissima piazza, in una giornata di sole autunnale, abbiamo rimembrato quei momenti e dell’amicizia che ancora lo legava a Mario Tronti e Alberto Asor Rosa. Erano altri tempi, grandiosi, quando l’egemonia intellettuale era nostra: del movimento operaio, del suo sindacato, del suo partito. E dentro di essa noi potevamo crescere, con l’illusione che non sarebbe mai tramontata. Trasformata sì, tramontata mai. Infatti quando penso a quei tempi mi appaiono a colori, inondati di luce.

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