Berlinguer oggi: la politica bene comune

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 28 luglio 2016

BERLINGUER VOLEVA RIDARE FORZA ALLA POLITICA CHE PENSA E LAVORA PER IL BENE COMUNE. È UNA RICHIESTA PIÙ ATTUALE OGGI DI QUANTO NON LO FOSSE PRIMA

Ho riletto l’intervista che Berlinguer concesse a Scalfari nel 1981. Quella famosa sulla questione morale. Quella contro i partiti che occupano lo Stato, non puntano al bene comune, non perseguono l’interesse pubblico, non hanno più passione, né più idee da condividere coi cittadini. Quell’intervista fu anche usata per gettare fango sui partiti in sé, fu interpretata moralisticamente, fu rappresentata come l’attacco finale che il leader del PCI faceva alla politica, contrapponendola tout court alla morale. Fu usata anche dai nemici del PCI, per gettare fango su quel partito. Reo di essere ‘troppo’ o per nulla diverso. Reo di essere un partito. Non era così, in realtà. Non era quella l’interpretazione. Perché Berlinguer parlava da segretario di partito, e portava l’attacco ai partiti di governo, non ce l’aveva con la classe astratta dei partiti, comprendendovi anche il suo. Traduceva la ‘moralità’ nel perseguimento del bene comune, nella passione civile, nell’idealità e nella lotta politica e culturale per il bene comune. E non inscenava astratte indignazioni etiche. “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo”: è così chiaro quel che Enrico Berlinguer intendesse, che fanno specie gli equivoci o le male interpretazioni.

La diversità comunista non era sbiadito idealismo etico, non era puzza sotto il naso, ma il progetto di una pratica di governo (e politica in generale) che partisse dal bene pubblico, dalla convinzione che la politica agisse e dovesse agire in nome di tutti, a partire dal proprio blocco sociale di riferimento, ma con una visione ampia, nazionale, che mettesse lo Stato, le istituzioni al primo posto, non per occuparli ma per svilupparli nelle funzioni e per democratizzarne sempre più il carattere e la struttura. Quella intervista fu un insegnamento politico, non uno stracciarsi le vesti. C’era anche la rabbia dentro, certo, ma non erano astratti furori. Era tuttavia interesse di molti sbiadire, diluire il messaggio politico che conteneva, depotenziarla nella sua denuncia dei metodi di governo di una classe dirigente a pezzi, ormai inadeguata a guidare le sorti del Paese. Si finse di non capire, ma Berlinguer poneva ancora una volta la candidatura del PCI al governo del Paese. Diceva: per noi la passione non è finita. Noi siamo pronti. Le cose andarono diversamente, però. Anche perché il terrorismo aveva già fatto di suo, indebolendo il Paese, la politica e, quindi, la sinistra a partire da quella comunista. La crisi aveva fatto il resto. L’egemonia si stava ribaltando. La denuncia del segretario PCI cadde nel vuoto, con quel che ne conseguì. La crisi dei partiti e delle istituzioni crebbe, a essa si rispose con le leggi elettorali e con i tecnicismi. Una risposta debole, anzi dannosa.

Guardate adesso i nostri anni sotto quella angolatura. La politica è finita, o quasi. I partiti sono stracci che si agitano al vento dei clan, delle camarille, della bande. La classe dirigente, le élite sono inadeguate, selezionate con metodi balzani: relazioni, amicizie, primarie aperte, comitati referendari, ras locali. La crisi mondiale è più forte di prima, le disuguaglianze cresciute, la povertà aumentata, la sofferenza sociale fortissima. Il neoliberismo è egemone, nei sentimenti, nelle culture ancor prima che nella finanza e nella economia. Le risposte sono individuali, competitive, solitarie. Non vi pare, quindi, sempre attuale la richiesta di Berlinguer di ridare forza alla politica che si occupa di bene comune, e di ripensare una ‘diversità’ culturale, umana, oltreché politica rispetto al panorama politico egemone? E non vi viene voglia di ridare alla sinistra una consistenza che oggi non ha? Il segretario del PCI diceva che la passione della sua parte politica non era finita. Oggi invece, a distanza di 35 anni, andrebbe ricostruita pezzo a pezzo, con testarda cocciutaggine, remando controcorrente. Sennò non se ne esce.

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