Cervelli in fuga, il paradosso Italia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Chiara Saraceno
Fonte: La Stampa

Cervelli in fuga, il paradosso Italia

La questione demografica, o meglio del crescente invecchiamento della popolazione a causa della combinazione di bassa fecondità e riduzione della popolazione in età fertile, è ormai al centro dell’agenda politica, almeno a parole. Una popolazione fortemente squilibrata a favore di chi è in età anziana o grande anziana, modificando il rapporto tra le generazioni e gli equilibri su cui si regge, pone, in effetti, nel medio e lungo periodo problemi di sostenibilità sia economica sia sociale: più spesa per pensioni e sanità, più domanda di cura anche non sanitaria, a fronte di una riduzione della popolazione in età attiva, produttiva, che deve fronteggiare i costi, unita a minore capacità di innovazione. Problemi enormi, che chiedono di essere affrontati in modo sistemico, nella consapevolezza che alcuni strumenti possono dare frutti solo nel lungo periodo, mentre altri possono essere utili ed efficaci nel periodo medio– breve. Ma che tutti sono necessari.

Al contrario, la politica continua ad affrontare la questione in termini non solo prevalentemente ideologici quando non colpevolizzanti le giovani generazioni, specie le giovani donne, perché fanno troppo pochi figli, come se il problema maggiore non stesse innanzitutto nella scarsità numerica dei giovani a causa delle scelte di fecondità delle generazioni oggi anziane, oltre che nelle difficoltà che le giovani generazioni oggi incontrano per stabilizzarsi nel mercato del lavoro, accedere ad una abitazione, conciliare responsabilità familiari e lavorative, avere fiducia nel proprio futuro e in quello dei loro eventuali figli. Per sostenere il desiderio di avere figli occorre operare per eliminare questi ostacoli in modo sistematico non per gruppo relazionali. Non basta un bonus nido se il nido non c’è. Non basta una decontribuzione temporanea per le madri che hanno due o tre figli se è già difficile mantenere l’occupazione, per di più stabile, quando si ha il primo. E se già a partire dal secondo figlio il rischio di cadere in povertà assoluta aumenta. Per sostenere le libere scelte positive di fecondità occorre innanzitutto migliorare le condizioni di vita e di opportunità delle giovani generazioni, in un’ottica di pari opportunità tra i sessi, ma anche tra classi sociali e territori.

Da questo punto di vista due dati usciti in questi giorni danno invece un segnale preoccupante. Il primo riguarda la dinamica per età della forza lavoro. Secondo gli ultimi dati Istat, l’occupazione è in aumento, ma questo aumento riguarda in larghissima maggioranza gli ultra-cinquantenni, mentre quella dei giovani fino a 34 anni, i più colpiti dalle tre crisi occupazionali che hanno colpito il paese dal 2087, continua a rimanere insoddisfacente, non avendo neppure ancora recuperato il tasso di occupazione del 2008, oltre che più bassa della media UE. Il secondo dato viene dal Rapporto Migrantes dedicato agli emigrati italiani all’estero, che segnala la forte crescita dell’emigrazione in generale e di quella giovanile in particolare, specie ad alta istruzione e qualifiche. L’Italia è ridiventata un paese di emigrazione per motivi economici, anche se le condizioni e caratteristiche dei nuovi emigranti sono diverse da un tempo. Si cercano altrove quelle condizioni di lavoro, riconoscimento, condizioni di vita che l’Italia non riesce a dare. Siamo al paradosso che, pur lamentandoci dello squilibrio demografico e della scarsità di giovani, non riusciamo a trattenere e valorizzare tutti quelli che ci sono. Ovviamente la libertà di muoversi è importante e le esperienze all’estero preziose. Ma il sistematico drenaggio di giovani – perché pochi ritornano e non c’è un movimento simmetrico da parte di giovani da altri paesi sviluppati – è un impoverimento sia demografico sia di capitale umano.

Ma anche le politiche meno frammentarie e più sistematiche a favore di libere scelte positive di fecondità e di miglioramento delle opportunità dei giovani non bastano a correggere le conseguenze dello squilibrio demografico nel breve-medio periodo. Anche se i giovani non entrassero e il tasso di fecondità di chi oggi è in età fertile aumentasse di qualche punto, non riuscirebbe a compensare se non molto parzialmente e non in tempi brevi lo squilibrio demografico che si è creato nel tempo. Occorrono anche politiche migratorie lungimiranti, che favoriscano l’arrivo di giovani già formati o disponibili a formarsi, che rafforzino i processi e strumenti di inclusione, a partire dalla concessione della cittadinanza a chi è nato e/ si è formato qui. Invece di investire esclusivamente nella ricerca di più o meno efficaci forme di contenimento, respingimento, ora anche delocalizzazione dei “migranti economici”, una politica demografica lungimirante dovrebbe investire nell’indirizzare i flussi, nel fornire formazione anche nei paesi d’origine, nel valorizzare il desiderio di miglioramento che muove chi emigra, e nel far sentire ben accetto incluso, chi arriva. Forse ciò facendo si imparerebbe anche a fare quanto è necessario perché anche troppi giovani e bambini autoctoni si sentano di fatto esclusi, estranei, anche se non emigrano.

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