Che cosa (non) dicono i documenti trafugati al Pentagono

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Federico Petroni
Fonte: Limes

Che cosa (non) dicono i documenti trafugati al Pentagono

Gli Stati Uniti sono un impero d’intelligence. Nessun’altra potenza esibisce lo stesso grado di sofisticazione tecnologica. Nessuna controlla così estensivamente le vie di comunicazione, marittime e digitali. Nessuna attinge a una così vasta rete di alleati (meglio, satelliti) per ampliare il raggio d’intercettazione. Non sono novità. Ma sono fattori da tenere a mente nel valutare i documenti riservati del Pentagono che circolano online in questi giorni.


A causa della sua taglia e dei suoi interessi mondiali – più precisamente, dell’impossibilità di darsi un limite o priorità – l’impero americano ambisce a guardare ovunque, sempre. (Non vuol dire vedere perfettamente: la parola intelligence serve a ricordarci che raccogliere un dato non è sufficiente a interpretarlo bene).


Il punto è che gli Stati Uniti generano una mole enorme di dati, di pezzi d’informazione. Affinché quella mole abbia un valore operativo, deve essere condivisa con un alto numero di funzionari. Perché quelle informazioni non servono a qualche geniaccio chiuso in uno scantinato del Pentagono per elaborare le più fini strategie di qui a dieci anni – lusso riservato a pochissimi, in calo – ma servono per condurre le operazioni quotidiane della più estesa macchina di politica estera mai vista sulla Terra.


Così si genera il paradosso che il top secret – letteralmente: segreto apicale – è molto poco segreto, perché in quell’apice ci sono «centinaia, forse migliaia» di persone, come commenta il Pentagono a proposito di chi può aver trafugato queste ultime informazioni. L’impero americano è sovraesteso anche in termini di intelligence.


Fumo o realtà? Bussole per orientarsi


L’attuale fuga di notizie è autentica o è disinformazione? Sono entrambe opzioni legittime. Il Pentagono è noto nel gergo washingtoniano come Leaks Department, il dipartimento degli spifferi, per la quantità di informazioni teoricamente riservate che filtrano. E gli Stati Uniti, come ogni potenza che si rispetti, manipolano sistematicamente la comunicazione in pubblico. Già una volta negli ultimi vent’anni sono riusciti a convincere il mondo di possedere prove certe che giustificassero un’invasione (Iraq 2003).

Il Pentagono, sede del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, con Washington, D.C. sullo sfondo. Foto di Hoberman Collection/Universal Images Group via Getty ImagesIl Pentagono, sede del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, con Washington, D.C. sullo sfondo. Foto di Hoberman Collection/Universal Images Group via Getty ImagesIl Pentagono, sede del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, con Washington, D.C. sullo sfondo. Foto di Hoberman Collection/Universal Images Group via Getty Images

Il Pentagono, sede del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, con Washington, D.C. sullo sfondo. Foto di Hoberman Collection/Universal Images Group via Getty Images

Per rispondere, convochiamo un primo fattore: la modalità di diffusione di questi documenti. Sono una cinquantina, un centinaio di pagine in totale, apparsi tra gennaio e marzo su una chat del social media Discord, per poi diffondersi sul sito di condivisione d’immagini 4chan, facendo notizia soltanto a inizio aprile quando alcuni file finiscono su Telegram e Twitter. Dalle immagini divulgate, risulta che i documenti sono stati stampati, piegati e fotografati. Chiunque sia stato, vuol far credere che non si tratti di un hackeraggio (in quel caso sarebbero stati diffusi i file digitali), ma di un’operazione dall’interno. Un altro indizio in tal senso è che alcuni dei documenti sono contrassegnati con la sigla NOFORN: no foreign nationals, riservati dunque soltanto a funzionari statunitensi.


pentagono leak

Alcuni documenti fotografati recano la sigla NOFORN (in alto a destra).


Bisogna quindi chiedersi se i documenti sono autentici. Il Pentagono dice che lo sono, al netto di qualche informazione contraffatta (per esempio i numeri dei russi e degli ucraini caduti in guerra). Aggiungendo un po’ di colore: i funzionari della Difesa hanno «male allo stomaco» e si sentono «traditi». Questo esclude che un paese straniero abbia inventato di sana pianta il tutto. Ma non ci mette ancora al riparo dall’operazione di disinformazione.


Terzo fattore: le informazioni sull’Ucraina erano praticamente già tutte note. I paesi della Nato hanno operatori speciali sul terreno; Kiev sta finendo le munizioni della contraerea; gli Stati Uniti hanno accesso a molti dei piani militari russi; non vogliono che gli ucraini colpiscano in Russia; soprattutto, sono scettici sulla possibilità per gli ucraini di riconquistare molti territori. I documenti si limitano a fornire conferme o dettagli. Per esempio, una data di scadenza tra metà aprile e inizio maggio per i sistemi di difesa antiaerea. Oppure segnalano che lo scetticismo americano è informato dalla stima che la controffensiva ucraina avrà risultati «ben al di sotto» delle aspettative e non riuscirà a interrompere il corridoio terrestre russo tra il Donbas e la Crimea.


I documenti sull’Ucraina non rivelano nulla di nuovo dal punto di vista strategico e nulla di così vicino nel tempo da compromettere le operazioni di Kiev sul terreno. Per esempio, gli ammanchi della contraerea sono stati compensati dai 2,6 miliardi di dollari stanziati a marzo dall’amministrazione Biden. Quanto? Non si sa. Dunque si torna nella nebbia. Mosca può decidere di tornare a testare lo scudo ucraino con i suoi aerei, come ha smesso di fare a guerra appena iniziata, ma non può avere la certezza di trovare campo libero.


A una lettura superficiale, potrebbe sembrare un modo di Washington per fare pressione su Kiev. Allo scopo di aggiustare il tiro delle operazioni, di ridimensionare gli obiettivi militari senza sprecare risorse già scarse, addirittura di indurre Zelens’kyj (Zelensky) e i suoi a un negoziato. D’altronde, una delle rivelazioni riguarda lo spionaggio sullo stesso presidente ucraino, intercettato a fine febbraio mentre suggerisce di «colpire postazioni nell’oblast’ di Rostov» con i droni. Secondo uno dei documenti divulgati, Washington teme che attacchi ucraini contro il territorio russo potrebbero indurre la Cina a concludere che gli Stati Uniti vogliono portare la guerra dentro la Federazione e che pertanto è necessario inviare armamenti pesanti a Mosca.


Carta di Laura Canali - 2023Carta di Laura Canali – 2023

 


Altri fattori però ci allontanano da questa interpretazione. Per fare pressione sugli alleati, è sufficiente alzare la cornetta e chiamare il Washington Post o il New York Times. Cosa che peraltro lo Stato americano ha ampiamente fatto in questi mesi. Come quando ha condiviso con il foglio newyorkese due valutazioni molto controverse: sono stati gli ucraini ad assassinare Dar’ja Dugina ed è stato un gruppo filo-ucraino a far saltare in aria Nord Stream. Non c’è bisogno di inventarsi documenti d’intelligence per mandare un messaggio a Kiev.


Soprattutto, non c’è bisogno di compromettere informatori e metodi di raccolta d’intelligence. L’unico danno vero di questa fuga di notizie sono i dettagli sulle tecniche di spionaggio. I documenti rivelano che gli Stati Uniti hanno accesso ai piani di quasi ogni apparato militare russo: ministero della Difesa, l’agenzia d’intelligence militare Gru, Stato maggiore dell’esercito, Centro di controllo della difesa nazionale. Questo potrebbe portare a neutralizzare le fonti o a chiudere canali di intercettazione. Espone inoltre a rappresaglie o contromisure avversarie tecnologie come Lapis, un sistema satellitare che ha migliorato l’analisi dei combattimenti in Ucraina fornendo migliori rappresentazioni degli oggetti sul campo al National Reconnaissance Office (Nro), l’agenzia americana più importante per l’uso militare dello Spazio.


Potrebbe essere tutto fumo per confondere i russi. Ma un ultimo fattore ci rende scettici. I documenti che non riguardano l’Ucraina sembrano fatti apposta per seminare discordia tra gli Stati Uniti e i loro alleati, a favore di Mosca. Gli Emirati Arabi Uniti e la Russia stringono rapporti d’intelligence in funzione antiamericana. Il Mossad incita le manifestazioni contro il governo israeliano sulla riforma giudiziaria. Washington vuole convincere lo stesso Israele e la Corea del Sud a inviare aiuti militari significativi all’Ucraina. Il governo ungherese qualifica gli americani fra i suoi «primi tre avversari». Il Gruppo Wagner ha chiesto a contatti in Turchia (membro Nato) armi da mandare in Mali e Ucraina.


Di nuovo, non notizie o tendenze già visibili. Le uniche novità, se confermate, sarebbero due. L’Egitto (primo paese al mondo con Israele, Ucraina esclusa, per aiuti militari statunitensi) pianificava in gran segreto di vendere razzi alla Russia. E la Serbia ha fornito (o accettato di fornire) armi a Kiev, cedendo alle pressioni di Washington. Mosca è molto interessata a trovare prove su questa faccenda: già lo scorso marzo il Cremlino aveva chiesto spiegazioni ufficiali a Belgrado della notizia di una presunta fornitura di razzi Grad da 122 millimetri apparsa su una chat di Telegram.


Fiamme negli apparati


Se è ragionevole che la fuga di notizie sia autentica, cioè se il responsabile è un funzionario americano di medio-alto livello, conviene soffermarsi sulle motivazioni. Potrebbe trattarsi di un informatore comprato col ricatto o col denaro da un paese straniero. Non sarebbe la prima volta.


L’interesse del mandante, probabilmente della Russia, sarebbe di intaccare, senza compromettere definitivamente, uno dei principali vantaggi degli Stati Uniti: la capacità di penetrare le stanze più intime dei poteri russi. È un vantaggio che Washington ha giocato nel preguerra, diffondendo quasi fosse un’agenzia di stampa informazioni sull’imminenza dell’aggressione moscovita. E che gioca nel quotidiano dei combattimenti, fornendo bersagli agli ucraini o anticipazioni sulle mosse dell’invasore.


Ciò detto, la motivazione dell’informatore potrebbe essere un’altra, volontaria. Potrebbe trattarsi di un oppositore dell’impero americano. Anche qui, esiste una tendenza. Bradley (poi Chelsea) Manning, talpa di Wikileaks nel 2010, e Edward Snowden, protagonista del Datagate del 2013, divulgarono decine e decine di migliaia di documenti perché contrari alle guerre e allo spionaggio di massa degli Stati Uniti. Dal punto di vista dello Stato, sono dei traditori. Dal loro punto di vista, sono dei difensori di un’idea di America corrotta dall’impero. Tuttavia, si trattava di funzionari di basso livello. Qui i documenti provengono dall’attività quotidiana degli Stati maggiori riuniti e della Cia. Siamo nel cuore del cosiddetto Stato profondo, teoricamente custode del carattere imperiale della potenza statunitense.


In questa opzione, la talpa vorrebbe suggerire che l’Ucraina non può vincere, che la guerra è un buco nero per gli arsenali americani, che gli alleati intralciano invece di favorire gli interessi statunitensi. Sono tratti non alieni, solo minoritari, nel dibattito a Washington. Li incarnano soprattutto i repubblicani nazionalisti, che sono stati al governo, anche al Pentagono, con Trump.


Soprattutto, che l’Ucraina non può vincere militarmente lo ha detto e ripetuto il capo degli Stati maggiori riuniti, generale Mark Milley. La prima volta la Casa Bianca lo ha smentito, suggerendo che si trattasse di una posizione personale. Poi non è più stato contraddetto, inducendo a pensare che si tratta di un punto di vista sempre più popolare a Washington. Anche perché l’amministrazione Biden non ha un piano definito per quello che deve accadere dopo la controffensiva, sia che fallisca sia che abbia successo. Non chiuderà i rubinetti degli aiuti a Kiev. Ma se si va verso lo stallo, come dicono i documenti divulgati, potrebbe stabilire che è il momento per negoziare o per congelare il conflitto.


Questo non vuol dire che la talpa è Milley. Ma che non è così impensabile che nel cuore degli apparati il dibattito se l’Ucraina sia o no la priorità della politica estera degli Stati Uniti potrebbe essere diventato così incandescente da lanciare fiamme all’esterno. Sarebbe la conferma che il sistema imperiale statunitense coltiva nel suo stesso seno forze antisistema. America contro America. Ma è solo un’ipotesi. Perché, nei giochi di spie, l’ultima a morire è l’incertezza.


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Carta di Laura Canali – 2015

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