Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 5 novembre 2014
Confini
C’è qualche sciocco che ancora oggi ripete che la globalizzazione ha cancellato i ‘confini’, che tutto è temporale, tutto è istantaneo, riferendosi con ciò all’estrema e miracolosa rapidità dei flussi di denaro, degli ordini di acquisto, delle grandi o minute decisioni concernenti il mercato, delle mode culturali, dei simboli, degli status, dei linguaggi, delle persone, della loro natura cosmopolita, delle opportunità, delle chance e degli strumenti tecnologici che rendono possibile tutto questo. Il trionfo del temporalità (non quella storica, ma quella cronologica) tenderebbe a realizzare il mito della nostra più recente umanità: il cosiddetto tempo reale. Senza indugi, senza mediazioni, si starebbe plasmando (anzi si sarebbe già plasmato) il senso dell’Istante, quel click che apre immense opportunità in un batter di ciglio. Fine dei confini spaziali, ripeto, e trionfo del dato temporale: tutto cambia, tutto è futuro, attorno a noi solo il deserto. La fine del presente, insomma. E l’ascesa di change e infuturamento.
Una sciocchezza, appunto. Una mera, l’ennesima, opzione ideologica. Non dico che la globalizzazione non abbia introdotto il concetto e la pratica della sovranazionalità, oppure accelerato le progressioni temporali delle procedure finanziarie. Sarei uno sciocco io in tal caso. Io dico che non è vero che i confini siano stati cancellati. Solo chi pensa in termini meramente geografici o topografici (e non di potere) potrebbe pensare che il mondo oggi sia una grande marmellata spianata, dove tutto va ovunque senza più freni, e senza alti e bassi. In realtà i confini persistono, e sono confini di opportunità, di ricchezza, di cultura, di vita, di sogni di godimenti persino. Dico di più: la globalizzazione rafforza i confini, estende le distanze, spalanca abissi. Peggio: la globalizzazione crea pure nuovi confini geografici, traccia una mappa delle differenze che corrisponde in parte a quella geografica precedente. Quella percentuale volatile di ricchezze finanziarie non resta sospesa in aria, ma si adagia qui e là, crea roccaforti, apre avamposti, inizia una guerra di posizione per conquistare casematte, oppure sferra attacchi utilizzando burattini locali, sceglie le proprie piazze, si insedia persino in quartieri residenziali esclusivi, ‘si arrocca’ vorrei dire per dare di più il senso, per poi partire in certe scorribande.
Certuni quartieri di grandi città sono ‘privatizzati’. Certi stati francobollo sono paradisi fiscali. Certi ospedali sono esclusivi, così come certi resort. Il ‘privato’ si autoalimenta e si auto soddisfa da sé. Si radica. L’1% percento è fatto di anche di radicamento, di vita che si delimita rispetto ad altra vita meno fortunata. Meno esclusiva, meno ricca. E poi ci sono i ghetti, dove si ‘confinano’, appunto, gli ultimi, i disagiati. Ci sono aree depresse economicamente, e ci sono zone dove il mercato offre mano d’opera a basso costo, senza tutele, una manna per l’1% dei superricchi sovranazionali. E poi ci sono Stati interi dove si sperimentano nuove ‘politiche’ di controllo sociale o di bilancio (come la Grecia) e altre aree ‘critiche’ dove si usano le armi che altrimenti nessuno acquisterebbe. Senza contare le regioni destinate all’approvvigionamento energetico, dove il concetto di confine e di circoscrizione è a tutta evidenza, e dove scattano guerre motivate ideologicamente. È una geopolitica complessa, insomma, dove l’ideologia della globalizzazione si confronta realisticamente con i ‘confinamenti’ a cui comunque ci si deve adattare. Che solo le favole possono ritenere marginali. In questa rivincita dello spazio sul tempo si gioca la rivincita della politica. Oggi compressa al rango di ‘annunciatrice’ di futuri, di leva del ‘cambiamento’, ma in realtà gettata in un angolo, temporalizzata. Perché nascondere i confini è la stessa cosa che nascondere la politica. E dunque l’unica opportunità di riscatto effettivo che abbiamo.
Il confine è quella linea mobile dinanzi alla quale si confrontano gli uomini divisi da un’opinione, da un interesse, da un progetto, da una partito, da una visione, da un sogno, da un programma di governo, da una soluzione. Lì c’è la politica. Far credere che i confini siano caduti è una truffa, allora. Per quanto i denari svolazzino qui e là, per quanto il lavoro sia reperito in un qualsiasi laddove, per quanto basti un soffio laggiù per scatenare una tempesta quaggiù, tutto ciò non vuol dire che abbiamo perso radici e che la terra ci sia diventata straniera. Sempre lungo dei confini dovremmo confrontarci, e spenderci, e vivere o morire. E anche mediare, perché no. Che sono poi i confini dei diritti, delle tutele, o dell’ingiustizia, dell’eguaglianza, della pace e della guerra, del riscatto o della sconfitta, della dignità o della decenza. Stretta, quasi conficcata su quel confine sta il nostro presente, ben prima del futuro inesistente di cui ci raccontano gli storyteller.
La globalizzazione ci parla di un mondo piatto, di un orizzonte infinito. Non è così. C’è sempre un davanti e un dietro, un alto e un basso; c’è sempre qualcuno che lavora e che è sfruttato (altro che ‘privilegi’ dei garantiti: un operaio a 1000 euro al mese resta un operaio, non un privilegiato), c’è sempre un ultimo che è precario, è massa di manovra e non ha tutele, o una donna che subisce violenze, o una famiglia che non arriva alla fine del mese, o un anziano a cui è tolta la dignità dopo anni di lavoro. Eccoli gli ultimi, quelli che sono da una parte del confine, mentre dall’altra c’è invece chi dei diritti non sa che farsene, visto che il potere è padre di privilegi. Chi è il nostro ‘nemico’? Lo so, ma non mi interessa partire dal negativo. Vedo però chi è il mio amico, vedo chi sta di qua dal confine con me. Da qui, da questa spazialità ripartono sempre teorie e tattiche della sinistra, non da riflessioni in astratto o da salotto. Hanno prodotto ‘politicamente’ di più gli operai che aprono un fronte e puntano pacificamente un ‘confine’ a Roma, che tante narrazioni estemporanee ma ben pagate dal bilancio pubblico.