Dopo il voto. Contro l’invettiva, oltre i frammenti

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Stefano Ciccone
di Stefano Ciccone – 18 marzo 2018
Dopo il voto, nel nostro piccolo mondo delle persone interessate alla politica e impegnate a sinistra si diffondono, come è comprensibile, analisi dei risultati elettorali e della sconfitta.
Il primo elemento di cui avere consapevolezza è la limitatezza del mondo a cui parliamo e in cui parliamo: se affidiamo la nostra riflessione, e addirittura la nostra iniziativa politica, ai social, l’algoritmo ci porterà a parlare con chi è come noi, con chi litiga spesso con noi, dandoci l’illusione di parlare in una grande piazza mentre parliamo al tavolino di un bar con gli amici.
L’analisi può e deve avere necessariamente più piani ma spesso siamo portati a usare questo cambio di sguardo come alibi per evitare i problemi. Il ricorso a uno sguardo più largo (“ma ricordiamoci che le sinistre sono in crisi in tutta Europa, ricordiamoci che la disgregazione dei legami sociali, la crescita dei populismi sono un fenomeno mondiale…”) pone una verità ma è usato per una fuga nel sociologismo per evitare una assunzione di responsabilità sugli errori soggettivi. Lo scenario e i limiti soggettivi di chi agisce in questo scenario vanno tenuti insieme e non agitati l’uno contro l’altro per evitare una riflessione necessaria.
La tipologia di commento più frequente, infatti, è l’invettiva. La denuncia di tutti gli errori dei gruppi dirigenti della sinistra che avrebbero portato al disastro. Come dare torto a chi denuncia questi errori?
Eppure questa pulsione mi pare particolarmente pericolosa e distruttiva per più ragioni.
La prima per il suo carattere illusorio e autoassolutorio: “cosa fare è chiaro, abbiamo tutti gli strumenti. Purtroppo c’è una dirigenza che ci tarpa le ali e ci impedisce di dispiegare le nostre potenzialità”. In realtà, assunta l’inadeguatezza dei gruppi dirigenti dei partiti, tutti noi siamo parte di questa crisi: ne siamo il risultato e la causa. Tornando al bar metaforico in cui discutiamo riproponiamo la figura dei 50 milioni di “allenatori della nazionale” che avrebbero la soluzione se solo si togliesse di mezzo l’incapace ora alla guida. Una lettura autoconsolatoria ma al tempo stesso frustrata e frustrante.
Non solo: nelle “invettive post voto” leggo diagnosi e ricette che, nel loro insieme, danno il quadro della frammentazione e del disorientamento: “siamo rimasti vincolati a modelli preistorici – abbiamo abbandonato gli ideali di un tempo, ci siamo persi dietro ai diritti civili dimenticando la sofferenza sociale –siamo stati sordi alla critica della politica prodotta dal femminismo, abbiamo inseguito la destra – non abbiamo ascoltato e rappresentato la paura e il disagio, non abbiamo riconosciuto il problema rappresentato dall’immigrazione, abbiamo avuto una visione arcaica de lavoro senza ascoltare le difficoltà delle piccole imprese, avete accettato le politiche di compressione del lavoro, siamo andati dietro ai nuovismi – siamo ancora ancorati a una cultura novecentesca del lavoro, della produzione e delle relazioni sociali”. Ognuno, a partire dal proprio frammento legge il contesto e non ci si ritrova, ma neanche è in grado di riconoscere gli altri frammenti e la porzione di verità che rappresentano.
Il voto marca un fenomeno sociale diffuso di spostamento a destra , di espressione di rabbia e rancore sociale. Il mov 5 stelle raccoglie una domanda di rottura, una insofferenza in cui si mescolano, domanda di cambiamento, rancore, qualunquismo e molti elementi tra loro contraddittori. Questa generica domanda di “rottura” non ha visto nelle sinistre un riferimento credibile. Anche in questo caso ha pesato non solo e non tanto il “voto utile” al Pd per arginare destre e populismi, ma il voto utile al M5S per determinare, appunto una rottura.
In questo voto pesa l’inadeguatezza delle proposte cha abbiamo messo in campo e di come le abbiamo praticate?
Il voto alcuni dati, da interpretare, li fornisce: c’è una grave crisi del PD, ma questi voti non vengono intercettati in modo significativo da Liberi e Uguali che ha un risultato deludente, ma non per un travaso di voti significativo verso Potere al Popolo che resta assolutamente residuale.
I risultati di Lazio e Lombardia, dove Liberi e Uguali aveva collocazioni diverse (qui in coalizione col PD lì in alternativa) danno altre indicazioni ulteriori: Zingaretti (rappresentato come un’esperienza vincente e in controtendenza con la crisi del PD renziano) vince solo per la divisione del centrodestra, per l’appoggio di LEU e la difficoltà del M5S a Roma; e i partiti della coalizione di centrosinistra non raggiungono la maggioranza.
In Lombardia LEU si presenta in alternativa al candidato PD e perde alle regionali circa 50.000 voti (il 31% dei propri voti) rispetto a quanto raccolto lo stesso giorno per la Camera, Pap ne perde 12.591 e la coalizione attorno al PD ne prende 217 in più.
Nel Lazio, dove LeU è in coalizione a sostegno di Zingaretti, perde alle regionali 20.231 voti (il 18% dei propri voti) rispetto alla Camera PaP ne perde 2.000 come candidata e 12.000 come lista, la coalizione per Zingarettti, (escludendo i voti LeU) guadagna 75033 rispetto al voto per la Camera. Anche qui non c’è un passaggio lineare di voti da LeU a PaP che marchino un dissenso per la scelta, o almeno si compensano con voti che sostengono Zingaretti o voti che vanno verso la lista civica per Zingaretti in parte formata da ex SEL.
Sembra dunque esserci un orientamento anche dell’elettorato di sinistra a spostare il proprio voto, quando c’è un sistema maggioritario, verso la coalizione che può competere.
Il voto, insomma, non consola nessuno nella sua lettura parziale, non permette a nessuno di dire: “se avessero fatto come dicevo…”.
Serve più pazienza, umiltà e voglia di cimentarsi con la complessità per afferrare i fili del nostro pensiero e delle nostre pratiche da riannodare.
Un filo è, per me, capire come riconnetere questi frammenti: sul piano politico programmatico (il nesso tra ambiente, lavoro, vita e socialità, ad esempio o il nesso tra condizioni di lavoro differenti troppo spesso poste e percepite tra loro in contrapposizione) ma anche sul piano culturale e, direi, esistenziale. Percepire i nessi tra dimensioni della vita che tendiamo a separare, trovare coerenza tra culture, pratiche riferimenti simbolici, linguaggi e immaginari su cui poco riflettiamo criticamente.
Non si tratta di un gesto pacifico, un mero lavoro di cucitura tra pezze di vari colori ma di un conflitto da agire. Ad esempio: è ancora accettabile proporre posizioni arditamente radicali sul tema monetario o sulle politiche economiche ed essere portatori di culture ottusamente conservatrici sul terreno di conflitto e trasformazione che riguarda la sessualità e la costruzione sociale dei modelli di genere?
È necessaria dunque una nuova analisi della società e una nuova ipotesi strategica che superi i limiti delle proposte delle sinistre (come leggiamo i processi di globalizzazione, la trasformazione del lavoro, le politiche neoliberiste, il rapporto tra modelli di produzione e insostenibilità ambientale e sociale, crescita delle disuguaglianze…) ma sarebbe illusorio trovarla in una definizione programmatica a tavolino in un idea illuminista che rimuova la dimensione sociale, culturale e partecipata dell’elaborazione politica. Anche su temi fondamentali e complessi come il rapporto con la dimensione europea e le politiche di austerity, assistiamo troppo spesso a sanguinose dispute tra tifoserie incapaci di produrre pratiche efficaci e messaggi comprensibili fuori dalla cerchia degli appassionati. La critica ai tecnocrati rivela in realtà il gusto alla competizione tra “esperti”.
Il secondo filo da riprendere è il lavoro sul senso comune, sulla cultura diffusa nella società: non bastano buone proposte programmatiche. È non è neanche utile prendersela con “un popolo arrabbiato e incattivito che non capisce” o, peggio, provare a inseguirlo nei suoi rancori. È necessario lavorare su quel rancore e su quelle paure, smontare le rappresentazioni dell’invasione, del migrante come minaccia, ricostruire reti collettive non solo di solidarietà ma di costruzione di senso. Per questo serve un approccio diverso, una riflessione culturale ma anche e soprattutto una pratica di presenza nei luoghi reali della vita delle persone. E non è facile: perché la frammentazione dei luoghi e dei tempi di vita, del lavoro e degli spazi di socialità sono il contesto in cui tutti viviamo e in cui è difficile reinventare pratiche collettive quotidiane. Ma alcuni luoghi collettivi sopravvivono e mi colpisce come in questi anni, ad esempio, ogni proposta di costruzione di un lavoro di contatto con le scuole, con gli studenti sia stato percepito come un’inutile perdita di tempo. Eppure ci sarà nei ragazzi e nelle ragazze una domanda di senso di fronte alla precarizzazione del futuro o , ad esempio al ritorno della guerra come dato quotidiano?
Ci sono dunque due piani distinti: una sconfitta delle sinistre nella società, una crisi delle forme di partecipazione e delle reti di solidarietà e una sconfitta soggettiva delle forze della sinistra in campo, segnate dai loro limiti. Ma anche questi due piani trovano un nesso: non solo c’è una inadeguatezza programmatica e di proposta politica delle sinistre esistenti, c’è anche una grave degenerazione del loro modo di essere, di discutere, di decidere, di essere in relazione con il resto della società che le rende incapaci di ascoltare, di pensare, di cambiare.
Se servono idee nuove, linguaggi nuovi, sguardi diversi sulla realtà, chi e come dovrebbe produrli? È dunque anche urgente ripensare il nostro modo di stare insieme, di costruire scelte (e prima ancora analisi) condivise, di scegliere i gruppi dirigenti e lo stesso rapporto tra questi le pratiche partecipative e i luoghi di elaborazione. Ripensare il rapporto tra presenza istituzionale e pratica politica, tra proposta elettorale e costruzione di soggetti politici.
Ma costruiamo esperienze in cui il dissenso e il conflitto divengono ostilità, in cui anteponiamo l’appartenenza (o la diffidenza) alla ricerca libera e curiosa, le rotture, le scissioni non sono vizi in sé da condannare in nome dell’”unità” di forme politiche sempre provvisorie e inadeguate, ma sono proprio il frutto di pratiche incapaci di ascolto reciproco, di ricerca di “sintesi” più avanzate basate sulla complessità, capaci di riconoscere laicamente la parte di verità presente nelle differenze, di costruire conflitti produttivi e non distruttivi. Dunque non rimuovere differenze, dissensi e conflitti, ma avere l’ambizione di non fermarsi alla loro fotografia. La denigrazione reciproca, l’ironia sull’inadeguatezza dei gruppi dirigenti altrui diviene a sinistra l’alibi rassicurante per restare al sicuro della propria nicchia e non riconoscere la propria parzialità e insufficienza. Un vizio che non riguarda solo le differenti “forze” politiche ma anche le pratiche sociali e culturali, o le elaborazioni in ambito accademico che sulle miserie della politica giustificano anche le proprie pigrizie. La drammaticità della situazione impone a tutti e tutte la responsabilità di mettersi in gioco, non solo per contribuire a un processo più ampio ma per non cadere ognuna nella propria autoreferenzialità che impedisce di cogliere la complessità e di parlare fuori dalla propria “bolla di realtà”.
Prima di scegliere scorciatoie proviamo a costruire spazi comuni, plurali, aperti, di ricerca, riflessione, invenzione. Troppe volte ci siamo detti: “si, dovremmo discuterne meglio, ma ora è più urgente costruire una proposta elettorale, è più urgente fare una scelta di campo, è più urgente costruire una nuova forza e proporre un nuovo leader”. Oggi l’urgenza è tornare a pensare, insieme, rimettendo in discussione la separatezza autoreferenziale tra “politica” e “pratiche sociali” o “elaborazione”.
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