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Einaudi, nei verbali segreti il tormento dell’ideologia
In un volume i resoconti delle riunioni di redazione della casa editrice negli anni 1943-52
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A cura di Tommaso Munari I VERBALI DEL MERCOLEDÌ. RIUNIONI EDITORIALI EINAUDI 1943-1952 Introduzione di Luisa Mangoni Einaudi pp. 533, € 40 |
Il tratto distintivo della Einaudi venne riassunto da Cesare Pavese in un ossimoro che chiarisce bene anche il senso delle riunioni editoriali di via Arcivescovado e poi di via Biancamano. A proposito della casa editrice torinese, di cui era ormai di fatto il direttore editoriale oltre che una delle anime originarie, Pavese parlò di «concordia discorde». Fosse stato più malizioso, avrebbe potuto anche dire «discordia concorde». Ma insomma, dopo aver letto questi primi Verbali del mercoledì 1943-1952 perfettamente curati da Tommaso Munari, non si troverebbe di meglio per definire il senso profondo di quelle riunioni intellettuali finalizzate a scopi editoriali. Lo ricorda opportunamente, nell’introduzione, Luisa Mangoni, cui si deve una irrinunciabile storia della casa editrice dalla fondazione agli anni Sessanta, il cui titolo, Pensare i libri, dice in sé già moltissimo. Alludendo al metodo di lavoro peculiare dello Struzzo, la Mangoni ricorda, del resto, una tarda riflessione di Giulio Bollati (ormai lontano dalla Einaudi da qualche decennio), che indicava nella crisi allora in corso in casa editrice un errore per lui fondamentale: quello di avere infranto, con la famosa (o meglio famigerata) Enciclopedia, la regola aurea della condivisione. Cioè il fatto che quella impresa fosse il frutto, insolito per un’opera Einaudi, di un’elaborazione pressoché individuale (totalmente delegata a Ruggero Romano) e perciò estranea a «quella mediazione culturale in cui consiste il compito e l’abilità di una casa editrice».
Di una casa editrice come la Einaudi soprattutto, nata nel 1933 da un gruppo di amici, Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila, raccolti attorno al loro più giovane compagno di liceo Giulio Einaudi e ben presto raggiunti da Natalia Ginzburg e da Giaime Pintor. Ora, su quella «mediazione», di cui lo stesso Bollati è stato grande artefice dal 1949, abbiamo una documentazione preziosa. Con la speranza che contribuisca a «disintossicare l’atmosfera» (parole della Mangoni) attorno a un’iniziativa intellettuale su cui da sempre si accendono, a intervalli regolari, discussioni e polemiche, siano esse legate al rapporto con il Partito comunista, alla censura dello slavista Renato Poggioli, al nodo dell’egemonia culturale, alla imprudenza della conduzione economica o alla «megalomania» del padrone. La necessità di verbalizzare le riunioni editoriali nasce per un’esigenza di comunicazione interna, quando il nucleo dei «senatori» è disperso per via delle persecuzioni belliche e le sedi della casa editrice sono diventate tre: Torino (presidiata dal solo Mila), ma anche Milano (con Vittorini dal ’43) e Roma (dove si trova Pavese), mentre Giulio Einaudi, per diversi mesi, è rifugiato in Svizzera.
Si parte con una lettera di Carlo Muscetta, datata 7 agosto 1943, in cui l’editore viene messo al corrente dell’idea di pubblicare alcuni «volumetti formato “universale”» sulle condizioni dell’Italia e dell’Europa. Di lì a qualche mese Giaime Pintor morirà dilaniato da una mina e Leone Ginzburg resterà vittima a Regina Coeli delle torture tedesche. Intanto, l’editore ha arruolato Vittorini, con il proposito di affidargli un «periodico di educazione popolare», un «giornale spregiudicato e vivo», che si tradurrà nel «Politecnico» settimanale e poi mensile. Nella fase calda della rivista, i verbali testimoniano il contrasto tra Pavese e Vittorini che incarna il desiderio di rinnovamento alimentato da Einaudi: un contrasto già noto grazie alle lettere editoriali, ma che qui trova alcune emergenze interessanti. Per esempio, quando Pavese lamenta con sarcasmo una lacuna di comunicazione con la redazione di Milano: «Ma in generale osserviamo che parlate di testi a noi sconosciuti. Questo è bello ma scomodo. Se dobbiamo dare un parere dobbiamo informarci. In linea di massima ci fidiamo della vostra scelta. Comunque alla prima occasione vedremo i testi e saremo sempre in tempo a dire la nostra». O la visibile insofferenza allorché si profila il progetto della «Vittoriniana», ovvero dei «Gettoni». La regia di Giulio Einaudi si percepisce ovunque. Persino nel suo silenzio. Se l’editore non può fare a meno di Pavese, non vuol rinunciare alle novità che promette il nuovo consulente da Milano.

Regia che tende a favorire le «discordie» per portarle a soluzione concorde. Le presenze, già nel ’45, sono impressionanti: a Torino, con Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat e Felice Balbo, a Roma con Muscetta, con Antonio Giolitti, a Milano con Vittorini e con Micha Kamenetzki (Ugo Stille) si ripensa all’intero catalogo, si discute di «collanologia», dalla «Biblioteca di cultura filosofica» ai «Saggi», dei «Poeti», della «Collana marxista», della «Biblioteca di cultura storica», perché ogni titolo acquisito deve entrare nel giusto contesto. E se non c’è il contesto adatto, cioè la collana pronta ad accoglierlo, meglio rinunciare. Non si parla mai di tirature e di vendite: non è questa la sede; si parla solo di idee e di libri. A proposito delle idee, è sempre vivo il tema dell’attualità, del confronto con la società e con la politica: si pensa a nuove iniziative d’intervento polemico e graffiante, dei «Corpuscoli» che facciano uscire la casa editrice dall’isolamento, ma dopo tante discussioni non se ne farà nulla, come capita spesso. A proposito di «Problemi italiani», una collana economica, l’indirizzo politico della casa editrice viene identificato nella coesistenza tra comunisti, azionisti e cattolici comunisti, «le sole ideologie, del resto, oggi vitali e che possono dare soluzioni di problemi secondo un reale piano costruttivo». Ma il rapporto con il Pci non manca di provocare motivi di tensione, tra cui la difficoltà a pubblicare libri sovietici di storia o economia, anche quelli suggeriti da Franco Venturi, allora addetto culturale in Urss. Se si tratta di un libro di «critica negativa» alla Russia, si preferisce soprassedere.
Il fatto è che le anime della Einaudi sono tante, forse più di quelle che potevano intuire gli einaudiani stessi. E la regia di Giulio deve essere accorta e sorniona al punto da delegare solo a sé e a nessun altro la gestione dei contatti con il Pci. Un «volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obbiezioni», come suggerisce Vittorini nella seduta del 12-13 gennaio 1949 cadrà nel vuoto. Il partito «non deve prendere posizione, avallando la collana», avverte il «dissidente» Balbo, «la Casa deve svolgere la funzione di Casa editrice e non può fare biblioteche di partito». Lo stesso Calvino sconsiglia di «partire pensando di diffondere questa collezione nelle sezioni di partito; ma di tenere conto delle esigenze del pubblico in genere». Con la morte di Pavese, sarà Bollati ad assumerne la funzione di eminenza grigia, intelligentissimo suggeritore a tutto campo (specie nella saggistica), diplomatico risolutore dei maggiori nodi editoriali. Calvino, con Vittorini, sarà il punto di riferimento per la narrativa e per i classici. I nomi delle presenze attorno al tavolo delle riunioni si moltiplicano: sono redattori, ma anche direttori di collana. L’unico nome di battesimo che figura nei verbali, accanto a quelli di tanti dott. e prof., è quello di Natalia (forse malcelata spia di misoginia intellettuale).
È una riunione di linea, quella del 23-24 maggio 1951, a svelare le singole posizioni politiche. Per esempio quelle dell’ex azionista Muscetta, divenuto marxista ortodosso, o di Antonio Giolitti, presenza togliattiana nell’Einaudi romana. Sono loro i due custodi dell’ortodossia comunista, che all’apertura auspicata da Bollati, Calvino, Bobbio e Balbo oppongono delle «esclusioni di principio»: la prima, dice Giolitti, è quella «di libri ideologici anticomunisti», la seconda «riguarda le posizioni di ideologia religiosa di qualsiasi genere si presentino». Natalia risponde a modo suo: «Non si deve partire da preconcetti, ma “prendere quel poco di buono che il mondo dà e dove lo dà». Lo stesso Vittorini non ci sta e ritiene che «qualsiasi esclusione di principio sia arbitraria». Ma è Bollati ad articolare un discorso più lucido e complesso esprimendo la necessità di superare la cultura antifascista come «funzione di avanguardia» per proporla come «funzione di direzione». È il momento del ripensamento e dei bilanci e si tratta di aprire nuove discussioni in tutti i campi, dalla cultura alla società, dalla medicina alla tecnica attraverso «opere fondamentali», classici, saggi, manuali. L’egemonia, secondo Bobbio, non vuol dire governo ma orientamento, pubblicando «tutti i libri che hanno una certa importanza».

Questioni di fondo che vanno al di là della politica editoriale intesa in senso stretto e che si erano già poste con la polemica tra Pavese ed Ernesto de Martino a proposito della collana etnografica, la famosa «Viola», che aveva aperto una frattura interna e una polemica esterna non da poco, relativa in particolare alla pubblicazione di Mircea Eliade e a un libro sul cannibalismo con prefazione di Giulio Cogni (definito da Muscetta «una nullità intellettuale e un famoso razzista fascista»). La stessa frattura (questa volta tutta interna) che sarà provocata dal dissenso su Nietzsche (su cui si vedano in questa pagina le posizioni inflessibili di Cantimori). La stessa frattura che si verificherà con l’uscita nei «Saggi» dei Prosatori e narratori del Novecento italiano, un libro di Enrico Falqui, che nel ’50 scatenò l’ira furibonda dello stesso Muscetta.
«Concordia discorde» o «discordia concorde» che fosse, questo metodo colora molte pagine dei Verbali: non c’è dubbio che la Einaudi sia cresciuta sul confronto tenace, sulla discussione anche aspra e apparentemente insanabile. Il metodo, del resto, aveva anche le sue crudeltà. Tanto da sacrificare lungo la storia della casa editrice alcune delle menti più acute. È il caso di Paolo Boringhieri, redattore inascoltato della sezione scientifica, o di Felice Balbo, animatore interno della prima ora che a un certo punto si trovò costretto a gettare la spugna nel febbraio 1956: «In questi ultimi anni – scrive a Einaudi – si è venuta sempre accentuando la divergenza d’indirizzo ideologico, e i miei pareri, le mie proposte e i miei tentativi di nuove iniziative più larghe e aperte hanno trovato crescenti difficoltà. Intendiamoci, non incolpo e non mi lamento con nessuno e tanto meno con te. Constato il fatto». Bisognava stare al gioco, accettare i duelli, sperando prima o poi di spuntarla. Solo a Einaudi e a Pavese erano riservati «ambiti editoriali non sottoposti a giudizi altrui», osserva la Mangoni. Anche Vittorini lavorò in parte su un territorio franco per «I gettoni». Ma le vie del Signore, in casa Einaudi, erano infinite e a volte imperscrutabili: ci si poteva intestardire su un argomento per anni (per esempio l’indice del «Millennio» Goldoni, vero leitmotiv di questi verbali); si potevano manifestare entusiasmi unanimi per proposte che non avrebbero mai visto la luce; si poteva stroncare senza rimedio la Pivano che proponeva un saggio sui neri d’America («molto debole» per Calvino); si poteva rimanere freddi rispetto alle Memorie di Adriano , che Paolo Serini non si sentì di raccomandare e che poi divennero un bestseller; si poteva bocciare il Dossi delle Note azzurre proposto da Dante Isella; si poteva rimandare al mittente un libro di Comisso, di Patti, di Alvaro, una traduzione di Fortini. Si poteva sbagliare, come quando, nel luglio 1952, per la seconda volta fu rifiutato Se questo è un uomo di Primo Levi, considerato di difficile successo, poiché già edito da De Silva. Però, nonostante gli errori, gli inciampi, le rinascite, i litigi e i dissesti, nessuno potrà negare che la «concordia discorde» o la «discordia concorde» di Giulio Einaudi abbia prodotto un patrimonio culturale inestimabile per gli italiani.
Il primo volume
Tutti gli incontri del mercoledì
I Verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, a cura di Tommaso Munari e con Introduzione di Luisa Mangoni (Einaudi, pp. 533, e 40) è il primo di tre volumi. Gli altri due, che arriveranno al 1983 (anno dell’amministrazione controllata della casa editrice torinese), sono in lavorazione. Questo primo libro anticipa il centenario della nascita di Giulio Einaudi, che cadrà il 2 gennaio 2012. I verbali, finora inediti, provengono in buona parte dall’archivio della casa editrice, conservato presso l’Archivio di Stato di Torino.