Günter Grass, autobiografia di un secolo

per Gabriella
Autore originale del testo: Giulio Schiavoni
Fonte: Il Manifesto
Url fonte: http://ilmanifesto.info/autobiografia-di-un-secolo/

di Giulio Schiavoni,

Lo scrittore tedesco, scomparso a 87 anni, è stato una coscienza morale della Germania. Attraverso i suoi libri, e con diversi registri linguistici, ha lottato contro la rimozione della memoria

Günter Grass

E così anche Gün­ter Grass ci ha lasciato. La sua voce cri­tica e la sua vis pole­mica, a dire il vero, non echeg­gia­vano più, da qual­che tempo, con la stessa fre­quenza che in pas­sato. Il sen­ti­mento quasi di un lento andar­sene e come di un gra­duale distacco dall’arena pub­blica per ritro­vare una natura e un lin­guag­gio nella loro forza piena e gra­ti­fi­cante si poteva forse cogliere in uno dei suoi ultimi testi nar­ra­tivi, Grimms Wör­ter (Le parole dei Grimm, 2010), uno splen­dido scritto soste­nuto dall’amore per la lin­gua ma anche un libro dell’addio: un pre­pa­rarsi al con­gedo, un con­cen­trarsi sull’essenziale («Da vec­chi ci si con­cen­tra sull’essenziale, e si impara a osser­vare la natura», aveva con­fes­sato in una recente intervista).

Se ne va con lui un intel­let­tuale con­tro­verso, sco­modo nel senso pieno del ter­mine, un tede­sco che è stato con­si­de­rato a lungo come una sorta di «coscienza morale» della Ger­ma­nia, invi­tata a fare i conti col pro­prio pas­sato e a non nutrire illu­sioni – a ridosso della caduta del Muro di Ber­lino — nei con­fronti di un pro­cesso come quello della riu­ni­fi­ca­zione tede­sca gestita dal can­cel­liere Kohl, salu­tata con impie­toso scet­ti­ci­smo come rischio di una colo­niz­za­zione capi­ta­li­stica dell’Est euro­peo nel Discorso di un senza patria (1990) e in romanzi come Il richiamo dell’ululone (1992) ed È una lunga sto­ria (1995). Se ne va con Grass un pole­mi­sta che ha fatto della sua bat­ta­glia morale con­tro la rimo­zione, con­tro l’«oblio» (del pas­sato nazi­sta, della «colpa», delle ina­de­gua­tezze) e del dovere della memo­ria (per dirla con Primo Levi) un pila­stro del pro­prio impe­gno esistenziale.

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L’ora zero

L’engagement di Grass si è deli­neato già sul finire degli anni Cin­quanta, allor­ché s’è avviata la sua noto­rietà. Sono gli anni della sua ade­sione alle istanze di rin­no­va­mento cul­tu­rale e morale pro­pu­gnate dal Gruppo 47 (impe­gnato nella ricerca di una nuova sen­si­bi­lità poe­tica e nella lotta con­tro mili­ta­ri­smo e nazi­fa­sci­smo) e al quale egli dedi­cherà nel 1977 il rac­conto che ha per titolo L’incontro di Telgte. Sono gli anni della pub­bli­ca­zione della Dan­zi­ger Tri­lo­gie («Tri­lo­gia di Dan­zica», com­po­sta fra il 1959 e il 1963 e costi­tuita dal Tam­buro di latta, da Gatto e topo e da Anni di cani), nella quale egli rileg­geva la sto­ria tede­sca a par­tire dal ricordo della sua città Natale, Dan­zica, l’odierna Gdansk polacca, la sua Hei­mat per­duta , schie­ran­dosi con­tro la restau­ra­zione di Kon­rad Ade­nauer e osteg­giando la «fuga dalla sto­ria» pra­ti­cata ad esem­pio mediante la teo­ria dell’«anno zero» (o dell’«ora zero»), mediante il for­zoso azze­ra­mento dell’esperienza del ter­rore che era ancora ben pre­sente nelle menti: «Si cer­cava», scrive in un altro passo del suo dia­logo a distanza con il Nobel giap­po­nese Ken­za­buro Oe, «di dare alla fine del ter­rore il signi­fi­cato di ora zero, come se si potesse rico­min­ciare tutto da capo, come se bastasse rimuo­vere le mace­rie, come se fosse con­sen­tito cavar­sela impuniti».

A par­tire da que­ste pre­messe, lo scrit­tore dan­zi­chiano ha matu­rato negli anni suc­ces­sivi anche un pro­prio, più espli­cito coin­vol­gi­mento nella lotta poli­tica, alter­nando fasi di aperta mili­tanza nelle file del Par­tito social­de­mo­cra­tico tede­sco (soste­nendo fra l’altro la poli­tica del futuro can­cel­liere Willy Brandt) a momenti di mag­giore distanza, nei quali si è fatta più pres­sante la sua vena nar­ra­tiva. E insieme non ha man­cato di dar prova della sua straor­di­na­ria ver­sa­ti­lità arti­stica, di muo­versi age­vol­mente nei dif­fe­renti regi­stri lin­gui­stici e negli stili dei vari io-narranti testi­mo­niati dalla sua opera.

Sem­pre con­vinto di poter agire sulla realtà in virtù della parola e della scrit­tura, egli ha rite­nuto di dover pren­dere la difesa degli scon­fitti e dei dis­sen­zienti, ricor­rendo per tutta la vita più alla pole­mica e alla «rab­bia» che alle schil­le­riane «gra­zia e dignità». Ha rite­nuto di dover com­por­tarsi da «libero deni­gra­tore» della pro­pria patria, secondo la for­mu­la­zione da lui usata dia­lo­gando nel 1995 con Ken­za­buro Oe, scrit­tore poco più gio­vane di lui che aveva cono­sciuto la piaga dell’imperialismo nip­po­nico e delle sue nefa­ste con­se­guenze e al quale ha con­fes­sato: «Con­ti­nuiamo a invec­chiare, caro amico, eppure siamo rima­sti dei bam­bini segnati. Entrambi abbiamo dovuto impa­rare, per vie simili e gra­zie alla nostra memo­ria da scrit­tori, a sop­por­tare Lei il Suo Giap­pone e io la mia Ger­ma­nia. Siamo abi­tuati a rima­nere in disparte e a fir­marci per così dire come liberi deni­gra­tori della nostra patria. In que­sto caso la cri­tica è la mas­sima espres­sione dell’amore verso il nostro paese. Ecco per­ché Le scrivo: per via di tutto quello che ci acco­muna, e anche per­ché credo e spero che le nostre let­tere pos­sano rive­larsi di inte­resse pubblico».

Ambi­guità di un’epoca

Per­so­na­lità com­plessa e pro­di­gio­sa­mente vitale (pit­tore e gra­fico, scul­tore, poeta, autore di testi tea­trali, sag­gi­sta, nar­ra­tore e ora­tore poli­tico), a par­tire dal Tam­buro di latta, il suo primo bestsel­ler, Grass finì così al cen­tro dell’attenzione inter­na­zio­nale, cata­liz­zando gli amori e gli odi della cri­tica a ogni sua prova let­te­ra­ria, sino a otte­nere il Nobel per la let­te­ra­tura nel 1999, anno in cui ha pub­bli­cato la rac­colta di rac­conti Il mio secolo. Molti i temi che via via erano intanto finiti al cen­tro del suo osser­va­to­rio. Se nella cosid­detta «Tri­lo­gia di Dan­zica» egli aveva denun­ciato le ambi­guità dell’era ade­naue­riana, nelle opere suc­ces­sive egli ha tema­tiz­zato la distanza dal vel­lei­ta­ri­smo dei movi­menti di con­te­sta­zione extra­par­la­men­tari in Ane­ste­sia locale (1969), ha espresso le sue riserve nei con­fronti della poli­tica di lento rifor­mi­smo della social­de­mo­cra­zia in Dal dia­rio di una lumaca (1972), ha por­tato l’attenzione sull’emancipazione fem­mi­nile nel superbo romanzo-fiume Il rombo (1977) e ha riflet­tuto sulla fun­zione sociale degli scrit­tori e della let­te­ra­tura nell’Incon­tro di Telgte (1979).

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I tabù svelati

Negli anni Ottanta ha poi spo­stato la pro­pria atten­zione sull’impegno eco­lo­gi­stico e sulla pos­si­bi­lità di una cata­strofe eco­lo­gica o magari di un disa­stro nucleare o sul calo demo­gra­fico della popo­la­zione euro­pea e sull’impoverimento del terzo mondo (in romanzi come Parti men­tali, La rattaMostrare la lin­gua, oppure nella serie di dise­gni Legno senza vita). E in anni a noi più vicini ha ria­perto il discorso sul pas­sato, affron­tando anzi­tutto il tabù delle vit­time tede­sche della Seconda guerra mon­diale nel Passo del gam­bero (2002) e avven­tu­ran­dosi nella recente tar­diva, cla­mo­rosa e con­tro­versa rive­la­zione auto­bio­gra­fica (in Sbuc­ciando la cipolla, 2006) sui pro­pri brevi tra­scorsi ado­le­scen­ziali nelle file delle Waf­fen SS. Quella con­fes­sione auto­bio­gra­fica – accolta, non solo in Ger­ma­nia ma anche in Ita­lia e nel resto d’Europa da attac­chi per­so­nali che lo lascia­rono scon­for­tato, anche se molti amici non lo abban­do­na­rono) — lo fece tor­nare più che mai nel mirino della cri­tica e del pub­blico inter­na­zio­nale, con­fer­mando — quasi para­dos­sal­mente — l’autenticità del suo impe­gno civile mal­grado le ombre e le cadute. Si trattò di un testo, anch’esso, in cui — tutto som­mato — lo scrit­tore dan­zi­chiano con­fermò di voler con­ti­nuare a restare sulla brec­cia per denun­ciare senza estre­mi­smi le stor­ture della sua amata e odiata Ger­ma­nia o per leg­gere il pre­sente in con­tro­luce facendo tesoro delle espe­rienze pas­sate, adot­tando – tutto som­mato — la scrit­tura anche come una forma di tera­pia dello choc che l’impatto con la sto­ria produce.

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