I MURI DEL LUNGO ’68. MANIFESTI E COMUNICAZIONE POLITICA IN ITALIA – DI WILLIAM GAMBETTA – ed. DERIVE APPRODI
da www.deriveapprodi.org
A partire dalla fine degli anni Sessanta, con l’onda lunga del ’68 italiano, il manifesto è stato uno dei principali strumenti della comunicazione politica. Nel vivo di quelle mobilitazioni conobbe una vera e propria rinascita, sia nel linguaggio grafico che nei metodi d’informazione e agitazione. Questo libro svolge un’analisi dei codici comunicativi che i diversi partiti e movimenti italiani utilizzarono nei loro manifesti.
La grafica politica si rinnovò anche sulla base degli stimoli e degli impulsi che provenivano da altri paesi, dai manifesti del Maggio parigino a quelli latinoamericani, dai disegni underground statunitensi ai grandi cartelloni della Cina maoista. Sperimentazioni grafiche che si intrecciarono a cliché più consueti, recuperati dall’iconografia del movimento operaio. Il confronto tra i manifesti italiani e quelli esteri e tra manifesti di differenti organizzazioni, più o meno distanti dai movimenti, mostra come il linguaggio della rivolta abbia influenzato l’immaginario politico nel suo complesso e le sue rappresentazioni iconiche, sconvolgendo anche la grafica dei partiti istituzionali.
Il libro affronta, grazie anche al ricco apparato iconografico a colori, alcuni di questi temi dell’immaginario politico e si conclude con un’analisi della crisi del manifesto politico, nei primissimi anni Ottanta. Con il declinare dei movimenti e il ritorno della politica nei luoghi istituzionali, infatti, il ruolo di questo medium declinò e la pervasività della televisione lo rese progressivamente marginale o, per lo meno, ne cambiò profondamente la funzione.
William Gambetta è Dottore di ricerca in storia presso l’Università di Parma e in scienze umane presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, oltre che ricercatore del Centro studi movimenti di Parma. Dal 2003 è tra gli animatori della rivista di storia «Zapruder». Tra le sue pubblicazioni: Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi (2011) e Memorie d’agosto. Letture delle Barricate antifasciste di Parma del 1922 (2007).
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Il ‘68 non fu solo una rivoluzione generazionale e politica, ma soprattutto una rivoluzione culturale. E quindi anche della comunicazione, in particolare di quella politica. Questa potrebbe essere l’estrema sintesi del libro I muri del lungo ‘68 , scritto da William Gambetta, dottore di ricerca a Parma, Modena e Reggio Emilia.
Prima di quell’anno e di quelli che seguirono, la comunicazione politica dei partiti era ancora ancorata alla storia della prima metà del Novecento, risentiva dello stile del realismo socialista o di quello fascista (peraltro non tanto diversi tra loro). Grandi titoli cubitali, immagini statiche, nessuna ironia. Serietà e tetraggine erano il leit motiv che ispiravano la comunicazione (allora si chiamava propaganda) dei partiti italiani.
Il ‘68 irruppe come un ciclone su questo stato di cose esistenti travolgendolo e costringendolo a cambiare se stesso, chi più chi meno. Spiega Gambetta: «I riferimenti iconografici e le strategie narrative di questa ondata conflittuale, infatti, non furono più quelle della comunicazione commerciale del «neocapitalismo» – sentita anzi come ostacolo a ogni possibile processo di liberazione umana – e nemmeno la retorica e ridondante propaganda sovietica, considerata maschera di un sistema oppressivo più che espressione di una possibile emancipazione sociale. Quella rivolta giovanile, al contrario, cercò stimoli e ispirazioni oltre gli orizzonti consueti, in altri giovani che, come loro, erano scesi in strade e in piazze, in paesi diversi per cultura e ordinamento, dagli Usa a Cuba, dalla Francia alla Cina, dove nel vivo della lotta si sperimentavano forme artistiche ed espressive. In questo quadro, il manifesto – uno dei più tradizionali mezzi di propaganda della politica dell’Ottocento e del Novecento – ritrovò nuova vita. Poco costoso e facilmente realizzabile, capace di un impatto comunicativo straordinario – grazie alla preminenza del linguaggio iconico su quello testuale e alla sua visibilità immediata nei luoghi pubblici – divenne immediatamente uno degli strumenti principali – se non il principale – della comunicazione antisistemica delle nuove generazioni».
E allora vediamoli alcuni dei questi manifesti che Gambetta ripubblica nel suo libro. E così troviamo una grande faccia del presidente Nixon con sovraimpresso un bersaglio e la scritta «Vomitate qui». Oppure un divertente botta e risposta tra una manifesto della Dc «C’è chi dà la vita per la tua libertà», e una risposta del giornale satirico «il Male» che sopra la famosa fotografia di un democristiano che tira le orecchie a Fanfani, scriveva: «C’è chi rischia le orecchie per la tua libertà». Fu la stagione in cui i partiti e i movimenti si affidarono alle capacità di grafici, disegnatori e fumettisti che fino a quel momento non avevano trovato spazio nella comunicazione politica. Albe Steiner, Ettore Vitali, Pietro Perotti, Roberto Zamarin (il famoso operaio Gasparazzo simbolo di Lotta continua è suo), Gal, i fratelli Spada, Guido Crepax, Piergiorgio Maoloni, questi ed altri furono le matite innovatrici della rivoluzione iconografica del post ‘68.
Che alcuni anni dopo però, e siamo agli anni Ottanta, dovette ritirarsi in buon ordine. La contestazione era ormai finita, altri modelli culturali prendevano il sopravvento, sono gli anni del made in Italy, della moda, della «Milano da bere». Al linguaggio radicale e a volte anche violento o comunque molto polemico, alle immagini di forte impatto emotivo, si sostituivano altre forme di comunicazione. Più tranquillizzanti, più personalistiche, più puntate insomma sul leader di questo o quel partito. Il primo fu Bettino Craxi che nel 1983 invase l’Italia di manifesti con la sua faccia sorridente, un camicia sportiva rossa e senza cravatta e la scritta anch’essa rossa «Vota» con all’interno della lettera O il garofano e la scritta Partito socialista. Dieci anni dopo arrivarono i manifesti di Silvio Berlusconi, la sua faccia e i vari slogan cubitali come «meno tasse per tutti». Nel frattempo la televisione, con i suoi diluviani talk show, metteva fine all’epoca del messaggio politico impresso su un manifesto appeso al muro di una città.


