di Alfredo Morganti – 22 maggio 2018
Mettiamo assieme le due cose: il premier ‘tecnico’ posto a capo di un governo politico e la nascita della Terza Repubblica annunciata da Di Maio. Se dovessimo fare una sintesi o tracciare un sillogismo, diremmo che la neonata Repubblica grillo-leghista mette la politica un passo dietro e si fa rappresentare da un ‘tecnico’ perché così vuole la gente: competenze ‘neutrali’ associate a spirito di servizio verso il popolo. Tradotto: la capacità di ‘eseguire’ un ‘programma’ scritto dagli sherpa chiusi in una stanza del Pirellone. Una sorta di algoritmo insomma, che lavorerà impersonalmente dopo essere stato messo a punto da ‘bravi’ ingegneri. Forse questo intende Salvini quando dice che è giunto il ‘tempo del fare’ (dicono tutti così: Berlusconi, Renzi, persino Zingaretti): dopo la fase di ‘programmazione’ si tratterebbe adesso di partire col ‘calcolo’ e la produzione vera e propria.
Uno mostro dunque, questo governo: politico ma-anche tecnico, e viceversa. Un centauro, o un Giano bifronte. La tecnica è sotto controllo politico e la politica si nasconde dietro la figura sottile di un professore. Il paradosso però è un altro ancora, perché i populisti che si affidano quale ‘esecutore’ a un rappresentante purissimo delle ‘cattive’ élite fa quasi tenerezza. Si vede che il ‘popolo’ va bene sinché vota, clicca su Rousseau, va i gazebo. Poi, però, deve fare spazio a chi ha fatto studi élitari e cosmopoliti. Al massimo, il tecnico può essere un ‘amico del popolo’, come ha detto Di Maio, ossia uno che ‘va al popolo’ secondo il classico stile populista. Non voglio dire che le competenze siano da rigettare, voglio dire che esse sono l’ultimo e paradossale rifugio dello Strapaese provinciale che offre la politica oggidì.
Una bella macedonia, insomma, quella che sta frullando. Un misto di tecnica, politica, professionisti della politica e professori, popolo ed élite, programmismo e leaderismo, no-euro e rassicurazioni, forzature e compatibilità, sinistra e destra, palazzo e piazze. Certo, tutto questo è stato possibile perché la sinistra ha perso i suoi caratteri, è apparsa disorientata e spaesata e ha ceduto molto terreno, che è stato subito conquistato da scaltri riders delle istituzioni. Anche se non bisogna dimenticare che in politica ci sono pure gli avversari e che nessuno è solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole, alle prese soltanto con le proprie idee e la propria prassi. Se si scorda questo, si perde per intero il senso della lotta politica e della realtà.
Fatto sta che questo governo, prima del voto, è stato evocato dalla leadership del PD come il male assoluto (con conseguente richiesta di voto utile), poi è stato quasi implorato che si formasse (Marcucci, Renzi che telefona a Salvini), infine indicato di nuovo come l’apocalisse verso cui scatenare una dura (persino apriroritaria) opposizione. Se non è sbandamento questo, se non è tatticismo, cos’altro? A forza di scansare la cultura politica perché noiosa, si finisce per essere preda di un’abissale ignoranza strategica. Tutti intenti a dibattere se il premier è eletto o meno, se serve un reggente o un segretario, se si fanno le primarie domani o tra quattro mesi, se Renzi è dimissionario o congelato, se in assemblea nazionale c’era la claque o no, se gli invitati sono invitati o meno, se Padre Pio sia una discriminante, se quella volta Giachetti abbia mandato a fanculo Speranza o solo precisato che aveva la faccia come il culo. Ragionamenti, diciamolo, di una sottigliezza infinitesimale che un borgataro come me non può né cogliere né capire. L’abisso politico, intanto, incombe. Occhio, amici e compagni.


