Il declino dell’impero americano

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Lucio Caracciolo
Fonte: La Repubblica

Il declino dell’impero americano

di Lucio Caracciolo – Gli imperi declinano, poi crollano. L’impero americano è crollato prima di finir di declinare. Giacché nessun impero esiste per moto proprio ma a due condizioni: se può volerlo e se è riconosciuto tale dagli altri imperi e dalle potenze che contano. Oggi l’egemone che si ostentava globale, garante degli amici e nemesi per i nemici, non si vuole più tale perché stanco di mondo e nostalgico di nazione. Fra la vita e la morte gli americani scelgono l’America. Per conseguenza, né i suoi imbaldanziti avversari né i satelliti in panico abbandonico lo considerano più superiore gestore dell’ordine planetario.

Ne prendiamo tutti atto. Ognuno ne trae provvisorie conseguenze. Per una volta l’inflazionatissima divisa “nulla è più come prima” si svela sostanza. Rivoluzione planetaria. Proliferano guerre di ogni disordine e grado, come si conviene quando d’improvviso il regime internazionale collassa. L’incertezza sul presente accorcia orizzonti, scatena fobie, danneggia intelligenze. Individui, comunità, nazioni si chiudono a riccio. Diffidano di tutti. Anche di sé. Come scriveva appena prima di morire il più geniale tra i reazionari americani, Angelo Maria Codevilla (1943-2021) da Voghera, emigrato ragazzino negli States che amerà e capirà più e meglio di molti nativi: “Gran parte dell’umanità ha smesso di prendere l’America sul serio. Peggio, molti americani hanno smesso di prendere l’America sul serio”. Crisi di fiducia da leggersi in filigrana nel valore del dollaro, moneta fiat per eccellenza, insieme nazionale e imperiale. Pilastro del globalismo a stelle e strisce, in sofferenza ancora contenuta, ma da cui dipende infine la sostenibilità del mostruoso debito federale – 38 mila miliardi, pari al 125% circa del pil – di cui oltre 9 mila in mano a creditori esteri. Come la loro divisa, gli Stati Uniti imperiali hanno poggiato la potenza imperiale sulla fiducia del mondo. Sulla fede altrui, controfaccia dell’American Creed. E ora?

Non tutti sottoscrivono il “credo quia absurdum” attribuito a Tertulliano. Dollaro fiat e America fiat, due grandezze uno stesso destino?

In attesa di capire che cosa sarà l’America post-globale, sappiamo che non potrà né vorrà essere ciò che è stata. Perché ciò che è stata ne ha prodotto la caduta. E la storia, come storia dimostra, non si ripete. Dispiace per Trump che giura di rifar grande l’America, ma gli imperi non ricrescono a piacimento. Per informazioni può rivolgersi all’amico Putin: “Chi non rimpiange l’Unione Sovietica è senza cuore. Chi vuole rifarla è senza testa”.

Crollo e declino dell’America sono anche, forse soprattutto, esito del suicidio sovietico. Non si passa impunemente il Rubicone che da signore dell’Occidente ti promuove, o ti illude, perno di tutto. Proprio quando demografia e biologia giocano contro di te perché potenziando le terre del caos minano lo sforzo di chi dovrebbe ridurne le complessità. E mentre la rivoluzione geopolitica incrocia quella tecnologica. La prima ti moltiplica le responsabilità. L’altra ti illude di poterle delegare all’algoritmo. Così contribuisce a illanguidire le legature sociali, i costumi, le istituzioni che tenevano insieme l’Occidente transatlantico prima che ambisse, o si fosse costretto, a farsi mondo. Risultato: l’America è maionese impazzita di subnazioni divise in classi simili a caste.

La nazione della speranza macina violenza e malinconia. Sette americani su dieci non credono più nel sogno americano, tre sono diagnosticati depressi. Sentono che l’età dell’oro mai più ritornerà.

L’aria del tempo riporta a This Is Not America di David Bowie e Pat Metheny, ballata antica di quarant’anni: “Questa non è l’America/Un piccolo pezzo di te/La piccola pace in me/Morirà (questo non è un miracolo)/Perché questa non è l’America/Il fiore non riesce a sbocciare in questa stagione/(…) C’era un tempo/Una tempesta che soffiava così pura/Questa non è l’America/Pupazzo di neve che si scioglie da dentro”.

L’ondata Maga che sta stravolgendo gli Stati Uniti tanto da assimilarli alle autocrazie eurasiatiche – rette da Cesari più popolari in patria di quanto lo sia Trump a casa sua – non è capriccio di un Narciso ma segno dei tempi. Non richiesti, osiamo anticipare che a somme tirate i posteri vedranno nel trumpismo alcune diagnosi pertinenti curate con terapie disastrose.

Il populismo è rivolta, spesso rozza e xenofoba, contro il privilegio elitista. Chiusura contro chiusura. Perbene e permale. Tutto fuorché dialogo. Ma non è coprendo la pentola bollente con doppio coperchio d’acciaio che se ne evita l’esplosione. Trump e i suoi numerosi emuli europei, altrettanto se non più elitisti delle élite che deprecano, cavalcano le ribellioni di popolo non per ricucire la nazione ma per adattarla alla propria tribù.

C’erano una volta partiti e movimenti sociali in competizione aperta. Oggi il campo occidentale in eccitata depressione si arrocca in monadi incomunicanti. Avrà avuto ragione Margaret Thatcher quando statuiva inesistente la società? Presto conteremo solo individui adattati alla legge del più forte? Dalla civiltà alla giungla?

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