Il governo Draghi non è un governo, ma un amalgama che nemmeno ambiva a esserlo

per Gian Franco Ferraris
Il governo Draghi non è un governo, ma un amalgama che nemmeno ambiva a esserlo
Le faglie ci sono tutte. Le avevamo preannunciate, ed erano visibilissime sin dalla nascita dell’esecutivo: nord-sud, destra-sinistra, donne-uomini, imprese-lavoratori, visioni alternative nella risposta alla pandemia. Il governo ne è trasversalmente tagliato, ed è proprio questa la ragione principale per parteciparvi, per stare dentro, per presenziare al fronte accesissimo che è tutto dentro Palazzo Chigi e lì condensato, almeno da un punto di vista politico-istituzionale. Senza considerare, cioè, il fronte sociale. Non è un caso che certe forze siano rappresentate da ministri, ma continuino a operare come se fossero all’opposizione, a partire dalla stampa amica. Non è un caso che non c’è sintesi, non c’è guida, almeno all’apparenza. Non è un generale che fa un esercito, ma la compagine degli ufficiali e la motivazione delle truppe: nisba in entrambi i casi.
Oggi è assolutamente evidente, ad esempio, come la gestione della pandemia sia una contraddizione in termini e spacchi l’esecutivo in due. Da una parte il ministro della Salute, dall’altra la Lega, le imprese, le categorie, i presidenti di regione. Gli stessi fronti di prima, ma stavolta senza più distinzione tra chi è dentro e chi fuori dal governo. È palese come si scontrino ‘narrazioni’ diverse del virus, come si chieda di riaprire tutto, come taluni operino da sindacato delle “categorie” pur occupando dicasteri, e come si sia più intenti a fare campagna elettorale che a governare il Paese. Si dirà: sono le leggi che pongono le regole, non le narrazioni. Ma le leggi e le regole si scrivono anche sull’onda della “narrazione” prevalente o vincente, sulla spinta dell’opinione pubblica, dei media, degli interessi in campo, sull’egemonia di una delle visioni in conflitto. E quella ‘aperturista’ vive del sostegno dei media e della spinta di chi detiene le risorse, mica noccioline.
C’è un errore di fondo, dunque, anche linguistico, che tende a far apparire il governo Draghi come un “governo” a tutti gli effetti. Appare davvero difficile immaginare l’esecutivo come una “compagine”, ossia come una squadra organicamente orientata a determinare la politica generale del Governo e l’indirizzo generale dell’azione amministrativa. Di “generale” vedo poco. Più che un governo classicamente inteso, mi sembra un comitato, un rassemblement, una pietanza mal amalgamata. E non solo per il vizio d’origine (governo senza una maggioranza circoscritta) ma per la sua concreta esperienza. Abbiamo detto della gestione della pandemia. Vediamo pure come il Recovery sia ridotto a questione tecnica (Conte è caduto anche per la task force!), ristretta a quattro ministri fiduciari, tutti tecnici e presunti “migliori”. E, come, per il resto ci si muova random (ognuno dice per sé). Senza parlare del fatto che la politica “vera” (esteri, interni, la stessa scuola, il Sud, per dire) siano considerati “gestione delle emergenze” (riprendo da quanto scrisse ‘Repubblica’), ossia delle rotture di cavolo che potrebbero interporsi davanti alla questione (quella sì “vera”) relativa ai soldi europei.
Un comitato di gestione, quindi, non un governo, ma da presidiare, vigilare, in cui fissare dei paletti, in cui farsi sentire per non lasciare troppo campo a destra e padroni. Anche perché il suo campo politico è così vasto che star fuori sarebbe stato (ed è) come scomparire nel vuoto, come finire dietro le quinte, a meno di non avere un forza tale da imporre il proprio punto di vista al dibattito pubblico e muoversi bene nel sociale. E non mi pare il caso della sinistra, che invece farebbe bene a fare blocco e riunirsi in una cosa nuova. In vita mia non ho mai visto un tale raffazzonamento politico, una tale assenza di cornice e di confini (che in politica sono tutto).
È l’esito finale della fine dei partiti, della loro riduzione ad agenzie funzionali, compagini personali, task force di qualche strambo tipo ambizioso. È la prova provata che la tendenza deve essere ribaltata, che serve un sistema dei partiti rinnovato e serio per combattere la convulsione attuale e la mancanza di una guida, e per redimere la politica acefala di questi decenni. Continuare a dire che i partiti sono ‘superati’ è come legittimare lo stato di fatto. Contentarsi cioè dei Comitati di gestione, tecnici, delle task force composta dai migliori, dell’intelligenza ‘pura’, di un’idea del potere vaga, indeterminata e universalistica. Contentarsi cioè della tecnica. Pensare da tecnici. Roba da conservatori, credo, quando c’è ben poco da dover conservare, a parte la democrazia e il ruolo attivo degli esseri umani.
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