Il male del secolo: politica in svendita

per Giorgio Pizzol
Autore originale del testo: Vicky Amendolia
Fonte: La Giustizia -quotidiano on line dell'associazione socialista liberale -
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Democrazia da intrattenimento e il vuoto che reclama una terza forza

Vicky Amendolia 8 agosto 2025

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La politica ha abdicato alla sua funzione più alta: educare, elevare, emancipare, e soprattutto fungere da ponte fra cittadini e Stato, ascoltando e traducendo i bisogni reali in scelte concrete. Un tempo questo legame era saldo (quando il sistema elettorale era proporzionale e i partiti avevano sedi attive disseminate sul territorio): oggi è un filo sfilacciato, spesso reciso, sostituito da sondaggi lampo, tweet acchiappa-like e dirette social in cui il consenso si misura a colpi di emoticon.

Nel nulla cosmico dell’attuale pensiero politico la mente assetata di valori etici, verità, intelligenza e sapienza, vola in alto ricordando le idee di grandi uomini come, per esempio, Gobetti, Matteotti e Gramsci che oggi non passerebbero neppure le primarie: troppo liberi, troppo colti, troppo scomodi. In un Paese che scambia un post virale per un programma di Governo, la verità è merce di contrabbando (e smontata, spacciandola con un comodo e lapidario fake news). Il male del secolo non si misura nello spread o nei bollettini di guerra: è la desertificazione morale e culturale della politica.

Un’arte che fu alta è ora degradata a talk show permanente. Un “mestiere” che si imparava nelle sezioni di quartiere è diventato appalto per spin doctor. Un linguaggio che era visione e progetto si è ridotto a slogan da tre parole, col timbro di garanzia del politically correct più ipocrita e castrante: viviamo in una stagione di semplificazione brutale, dove l’ignoranza è merce politica e l’indifferenza è diventata virtù. I partiti sono comitati elettorali privi di cultura e di contatto con la società reale; i leader sono algoritmi travestiti da uomini; la parola “socialismo” è quasi impronunciabile, se non per denigrarla e il pensiero critico è sostituito dalla reazione istintiva.

I partiti oggi somigliano a centri commerciali: corsia “progressista” con confezioni patinate ma vuote, scaffale “patriottico” pieno di bandiere made in China, e in mezzo un corridoio deserto chiamato “centro”. Nella migliore delle ipotesi vendono illusioni; nella peggiore vendono se stessi.

In questo mercato dell’effimero, la scuola — il primo laboratorio civico — è stata ridotta a un hub di competenze “spendibili”, sacrificando la formazione del pensiero critico e l’educazione alla cittadinanza: il linguaggio ridotto all’osso, le materie ritenute “inutili”- ma utili per formare l’individuo- eliminate. Come ammoniva Émile Durkheim, senza un’istruzione capace di forgiare coscienze libere e responsabili, la democrazia si svuota dall’interno. Pierre Bourdieu avrebbe parlato di “riproduzione sociale del conformismo”: si insegnano nozioni, ma si disabitua a pensare. John Dewey ricordava che la scuola è “la forma più efficace di democrazia”, ma solo se educa alla partecipazione consapevole, non se addestra al mercato del lavoro come fosse un’azienda di selezione del personale.

In questa atmosfera viziata, ricordare, dunque, Piero Gobetti, Giacomo Matteotti e Antonio Gramsci non è un esercizio da anniversario: è un atto di sopravvivenza intellettuale. Gobetti vedeva nel liberalismo un’educazione alla libertà, non una vetrina per il capitale. Matteotti affrontava il potere con la precisione di un chirurgo, armato di documenti e prove. Gramsci aveva capito che il potere si perpetua attraverso la cultura e che senza scuole libere e stampa pluralista la democrazia è solo un guscio: tutti e tre si muovono sul terreno della verità scomoda, dell’antipatia meritata, della coerenza pagata cara. Nessuno di loro si è mai nascosto dietro il compromesso. Nessuno ha mai cercato scorciatoie. Tutti hanno parlato al popolo senza lusingarlo, senza blandirlo, ma sfidandolo a diventare migliore. E tutti, per questo, sono stati perseguitati, isolati, uccisi o lasciati morire lentamente.

Questi tre uomini, quindi, parlavano di politica come etica della verità, non come mestiere del consenso. Oggi, in un sistema che premia il trasformismo come virtù, sarebbero bollati come “non in linea”. Nel loro pensiero ritroviamo la condanna senza appello di ogni forma di populismo, di paternalismo autoritario, di compromesso morale (tutti requisiti oggi conditio sine qua non del politico italico- e non solo): ritroviamo l’idea che la democrazia non è semplicemente votare, ma educarsi alla libertà, alla responsabilità, alla partecipazione; ritroviamo l’esigenza di un pensiero lungo, di una politica che non cerchi il consenso immediato ma costruisca nel tempo una nuova cittadinanza.

La vera importante battaglia, dunque, è quella da ingaggiare per porre fine a questa stagione di semplificazione brutale, dove l’ignoranza è merce politica e l’indifferenza è diventata virtù, dove i partiti sono comitati elettorali privi di cultura e i leader sono algoritmi travestiti da uomini, dove il pensiero critico è sostituito dalla reazione istintiva e la parola “socialismo” è quasi impronunciabile, se non per denigrarla. Il vero male del secolo non è il populismo in sé, né l’estremismo, né la mediocrità individuale: è la sostituzione della politica con la sua caricatura televisiva, l’accettazione che un meme valga più di un’idea e che la cultura sia un lusso da tagliare nei bilanci.

È per questo che oggi abbiamo il dovere di ricostruire una federazione politica nuova, una “terza forza” che occupi lo spazio vuoto tra i due poli privi di valori, fondata non sulla somma di sigle (molte delle quali orticelli dove, spesso, purtroppo, il leader di turno pare geloso del suo piccolo “avere”), ma sulla convergenza di tradizioni culturali: socialista, democratica, repubblicana, liberale, riformista. Una rete di pensieri e di azioni che riparta da quei valori comuni che univano Salvemini, Gobetti, Matteotti e Gramsci: verità, giustizia sociale, cultura, responsabilità individuale, anticlericalismo laico e spirito pubblico, perché la cura non può essere un maquillage del sistema esistente. Serve questa terza forza — socialista, socialdemocratica, repubblicana, liberale e riformista — capace di spezzare il duopolio sterile tra un centrodestra che si nutre di slogan e un centrosinistra che ha perso l’alfabeto dei suoi ideali, cioè una forza federativa (reale e non finalizzata solo a fattori elettoralistici) che mantenga le identità dei partiti che la compongono, ma che condivida progettualità e valori, ridando alla politica la sua missione di guida morale e ponte civico.

Altrimenti, continueremo ad affidarci a comici senza ironia, economisti senza conti, avvocati senza codici e statisti senza Stato e, come ammoniva Gobetti, non potremo dare la colpa a loro: sarà ancora, miseramente, “l’autobiografia della nazione”.

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