Il peso del fattore tempo: quando il virus corre più veloce della politica
La Cancelliera tedesca Angela Merkel, di fronte agli altri leader europei, ha dichiarato: “Bisognava chiudere prima, avremmo dovuto agire prima, ma la gente deve vedere i letti pieni”. Una espressione brutale, ma che forse mette a nudo sia un certo modo di fare politica e nel contempo anche un certo modo di vedere i politici da parte dei cittadini: si tende ad accusare per quanto accade piuttosto che elogiare per quello che si è evitato. Potremmo forse ipotizzare che le ragioni del consenso democratico siano state in contrasto con le scelte più efficaci nella lotta al coronavirus.
E i governanti, attenti al consenso giorno per giorno, lo sanno, mentre il virus corre veloce e la politica arranca. Ma può bastare il “cercare di stare al passo”? La politica può essere solo reattiva, anziché proattiva e anticipatoria? Stiamo inseguendo la seconda ondata virale con poca prevenzione, pochi strumenti, poca conoscenza, tanti tira e molla sia a livello nazionale che a livello regionale. Soprattutto, sembra che le politiche settoriali messe in campo siano scoordinate tra loro e di breve respiro, quando invece una strategia sarebbe fondamentale. In fondo, siamo abituati a vivere di “emergenze”, che sovente mettono la classe politica al riparo dall’incapacità di prevenire, consentono agevoli scorciatoie e indeboliscono i controlli. L’emergenza predomina e autogiustifica tutto, al di là degli effettivi risultati. In più, pare essere assente una governance sovranazionale, tra organizzazioni non sempre credibili e altalenanti nei pareri (OMS), istituzioni bloccate da veti contrapposti (Consiglio UE), Stati autoreferenziali, organizzazioni senza voce (ONU e NATO). Altrettanto assente è il coordinamento cooperativo tra Stato e istituzioni locali.
Il virus detta ormai l’agenda politica, sino a permeare i fondamenti delle nostre democrazie, sistemi politici che paiono più in difficoltà rispetto alla necessità di intervento rapido nella pandemia, così come succede nei nostri corpi. Come per le reazioni immunitarie nei casi clinici più gravi, le politiche di contrasto al virus spesso risultano tardive, sproporzionate e male indirizzate. Perché? La realtà ci insegna che in un mondo complesso e interdipendente la capacità di anticipare e di saper fronteggiare i rischi inattesi è fondamentale. Sempre più situazioni imprevedibili – originate in contesti magari culturalmente, politicamente e geograficamente lontani – scombinano l’agenda politica di un paese e ne mettono a nudo le incapacità strategiche e previsionali. Questo vale anche per i regimi non democratici e per i leader nazional/sovranisti/populisti, che certo hanno dato il peggio di sé stessi nel corso dell’emergenza.
Il virus agisce su un doppio binario: impiega un tempo relativamente lungo a diventare centrale nelle scelte politiche, ma fa in fretta a saturare gli ospedali e a mandare in crisi la sanità. Di conseguenza, la politica non decide in modo preventivo, e poi opera in regime di emergenza quando la scarsità di posti sembra rendere meno odiose le restrizioni. E magari è troppo tardi. La diffusione di dati sempre più allarmanti genera incertezza e paura nella gente e spinge ad accettare sacrifici, a riorganizzarsi, a cambiare abitudini e stili di vita. Invece, prevenire non paga politicamente: le misure dure in presenza di una debole percezione del pericolo possono indurre a non rispettarle, e quindi a vanificarne gli effetti, con perdita di credibilità per i governanti. Ma produce anche una conseguenza politica paradossale: in caso di successo delle misure imposte (controllo e non diffusione del contagio), la minor pericolosità percepita consente alle opposizioni e ai ceti danneggiati economicamente di accusare chi governa di avere imposto costi esagerati alla popolazione. Non si è verificata la pandemia e invece si è messa in crisi l’economia e si sono posti limiti alle libertà individuali.
In fondo nell’arena politica si può sempre addossare a chi governa la responsabilità di una situazione verificatasi, mentre è difficile ringraziare per qualcosa che non è accaduto. Il contagio che non si allarga è un “non evento”; invece, i disagi per le scelte restrittive adottate suscitano ovunque dissenso.
Ci si chiede allora se per caso conviene ai leader politici nazionali (in termini di consenso) attendere che la gente venga conquistata da una percezione del rischio sempre più forte sino al punto da fargli accettare (se non subire) restrizioni, oltre al peso di scelte limitative delle libertà o dannose per i suoi interessi o peggiorative delle sue condizioni sociali.
Si lascia allora che la situazione assuma i tratti più complicati. Ma ad un certo punto la realtà può sfuggire dal controllo. E se, a questo punto, fosse ormai troppo tardi per politiche efficaci? Sarebbe la ricorrente lezione del paradosso delle conseguenze inattese dell’azione umana. Possibile che i tanti consulenti del governo non abbiano mai tentato un’analisi controfattuale degli effetti delle politiche adottate nel corso della prima fase della pandemia? Valutare non solo i “prodotti” delle politiche, ma soprattutto gli “effetti” cioè i risultati rispetto al problema da risolvere, anche in relazione ai comportamenti della popolazione target. E’ mancata la capacità di misurare “l’impatto”, inteso come l’insieme degli effetti di lungo termine prodotti dalle scelte emergenziali adottate, considerando sia le cause interne/endogene che quelle esterne/esogene all’intervento. Invece, si prosegue con la stessa retorica, le stesse parole, gli stessi riti. Eppure, l’estate avrebbe consentito un più opportuno utilizzo del tempo in vista di una seconda ondata che certo non può considerarsi effetto imprevedibile. Ipotizzare cosa sarebbe accaduto in assenza di alcune misure della primavera passata per verificare se queste ultime sono state davvero efficaci, e capire come eventualmente correggere il tiro.
Si realizza ad un dato tempo t una sorta di avvitamento schizofrenico: nel tempo t-1 il governo si limita a raccomandazioni, a scelte parziali, a provvedimenti settoriali, ma nel tempo t+1 si capisce che decisioni che prima sembravano persino esagerate ora risulteranno inadeguate, se non superate. E però basate sulla sensazione della loro ineludibilità e quindi meno costose politicamente per chi le assumerà.
Il fattore tempo è quindi una variabile cruciale in questi periodi di decisioni che affrontano problemi che corrono veloci, anche più veloci dei tempi della politica: utilizzando il linguaggio militare, tanto abusato in questo momento, non paga la scelta di “una guerra di posizione”, stando in trincea in attesa del nemico. Intanto, i costi del tempo trascorso (e perduto?) possono diventare insopportabili per la società e per il sistema economico. Il paradosso pare proprio questo: i politici pagano un costo sia se portano a successo la prevenzione, sia se la falliscono!
Andrea Mignone


