Fonte: La Repubblica
Il potere e gli impotenti
Oggi da un lato si prova paura, dall’altro c’è la consapevolezza di non poter incidere sul destino del mondo. Ma non è vero che si è totalmente a mani nude
di Michele Ainis – Il primo sentimento è la paura. Esploderà una guerra nucleare? A ucciderci sarà invece il clima? O le orde d’immigrati che invadono le nostre città? Dopo di che subentra un sentimento d’impotenza, di insignificanza. Che posso fare io, cosa puoi fare tu, per incidere sui destini del mondo? Nulla: il bastone del comando è in pugno a un drappello di capi supremi, signori della guerra e della pace, delle ricchezze e della fame. Spetta a loro, non a noi, fermare un genocidio in Palestina o un’invasione nei freddi territori dell’Ucraina. Tocca a loro, non a noi, imporre dazi e tasse, premi e castighi.
Due conseguenze discendono da questo doppio sentimento. In primo luogo, la paura libera un’energia negativa, puramente difensiva, che invoca protezione appellandosi a un uomo (o una donna) della provvidenza. È quest’umore primordiale che alleva il seme dell’autoritarismo, del regime illiberale che sta attecchendo ai quattro lati del pianeta, anche nelle democrazie più antiche, come l’America di Trump. Nel tempo della paura, delle grandi paure collettive, non c’è più spazio per le garanzie, le libertà, i diritti. C’è spazio unicamente per un bisogno – ossessivo e mai del tutto sazio – di sicurezza, o almeno di rassicurazione.
Quanto al senso d’impotenza che ci morde lo stomaco, che ci fa sentire irrilevanti se non anche – uno per uno – inutili, l’unica via di scampo è distogliere lo sguardo, dal mondo e da noi stessi. Immagini di bimbi malnutriti o amputati dalle bombe, d’edifici devastati, di barconi affondati, d’incendi, alluvioni, cataclismi – basta, non ne possiamo più. E tanto non potremmo metterci rimedio. Meglio concentrarsi su una serie tv oppure – perché no?– spiare le mogli altrui su un gruppo Facebook. Meglio stordirsi con il calciomercato, o allargare le pupille seguendo le peripezie degli influencer. Senza tuttavia sprecare il proprio tempo con le alchimie della politica, o peggio con la vita dei partiti, ammesso che ci sia ancora vita nei partiti. Senza correre alle urne per votare questo o quello, oltretutto non va più di moda, l’affluenza cala in ogni continente.
Succede, d’altronde, pure nel nostro piccolo Paese, periferico e a sua volta irrilevante sul grande palcoscenico mondiale. Pure alle nostre latitudini troneggia un capo, o meglio una capa. Tanto più in questi giorni d’agosto, della santa pausa estiva. Mattarella è in vacanza, il Parlamento è chiuso, il Consiglio dei ministri sbaraccato. Chi rimane a teatro? Un’attrice solitaria: Giorgia Meloni. Un viaggio, un incontro, un intervento, qualcosa ogni minuto. Lei fa, lei disfa, lei decide, lei dice e disdice. E noi? Possiamo soltanto scegliere se schierarci tra i follower o gli antipatizzanti. Qui come altrove, non c’è mai stata tanta distanza, tanta verticalità, fra il potere e gli impotenti. Sia detto per inciso, e per quel poco che vale: questa condizione tradisce la promessa dei costituenti, offende la legalità costituzionale. Giacché al centro della nostra Carta c’è la «persona umana», ogni persona nella sua dimensione sociale. La sua dignità, e anche la sua voce, che dovrebbe risuonare più alta, più potente, del trepestio confuso dei Palazzi. E che dovrebbe farsi sorda al vocione del capo, dato che la democrazia è uguaglianza, è assenza di capi. Ma non è più così, e ormai da troppo tempo. In Italia vige una capocrazia – anzi, hanno allestito un progetto di riforma (il premierato) per consacrarla con tutti i crismi del diritto.
Però non è vero, non è del tutto vero, che siamo a mani nude. Se il tuo partito strizza l’occhio a Putin o a Trump o a Netanyahu, e se t’impietosisce ancora l’affamamento di un popolo o la deportazione d’immigrati con le catene ai polsi, allora puoi anche smettere di donargli il voto. Se una legge liberticida vieta le manifestazioni di dissenso, rimane pur sempre la resistenza passiva indicata da Gandhi. E se nella società postindustriale tu non sei che un consumatore, destinatario di pubblicità mirate attraverso la profilazione, puoi sempre usare il carrello della spesa. No al caviale russo, no agli agrumi israeliani, e infine no ai viaggi negli Usa, non di questi tempi. Sarà insufficiente, sarà poco. Ma solo se lo faremo in pochi.


