Fonte: La Stampa
Mi sono sempre considerato un uomo di sinistra e quindi ho sempre dato al termine “sinistra” una connotazione positiva, anche ora che è sempre più avversata, e al termine “destra” una connotazione negativa, pur essendo oggi ampiamente rivalutata. La ragione fondamentale per cui in alcune epoche della mia vita ho avuto qualche interesse per la politica è sempre stato il disagio di fronte all’enorme spettacolo delle diseguaglianze, tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, tra chi sta in alto e chi in basso nella scala sociale, tra chi possiede potere – vale a dire capacità di determinare il comportamento altrui – e chi non ne ha.
Confesso che ho rubato. Quelle che avete letto non sono parole mie (era chiaro, suppongo). Le ho prese a prestito (mischiandole un po’) da un gigante torinese – una “firma” de La Stampa – che vent’anni fa, tra due giorni, se ne andava lasciando un vuoto incolmabile e nessun erede: Norberto Bobbio. Sono andato a rileggere “Destra e sinistra”. Folgorante. Spiega ancora perfettamente perché la sinistra (elitaria, saccente, incapace di sintonizzarsi con chi sta male) perde e la destra (rincagnata, intollerante, superomista e ultranazionalista) vince e probabilmente vincerà ancora a lungo.
L’ho ricercato dopo la conferenza stampa di Giorgia Meloni, l’underdog più potente d’Italia, la donna capace, appunto, di mettere da parte la sinistra per risistemare nei palazzi del potere la destra.
Tre ore e mezza e quarantadue risposte di funambolismo ipnotico piuttosto spettacolare e, in fin dei conti, inconcludente. Al termine del quale – al di là delle troppe domande non fatte per colpa di una categoria (noi) non sempre lucidissima, blandamente aggressiva, se non strumentalmente remissiva all’interno di un format che non aiuta a incalzare l’interlocutore – mi è rimasto comunque un dubbio: che cosa ha detto davvero la premier?
Poche cose, da cercare sottotraccia. Uno: Meloni ha sfatato il mito (fondato) di essere una leader che scappa davanti ai giornalisti, stigma che non giova alla credibilità democratica del Paese agli occhi del mondo. Almeno di quello Occidentale. L’ultima volta che si era presentata al faccia a faccia, dopo cinque domande aveva spiegato di dover correre in Confcommercio. La conferenza stampa, seguita al naufragio di Cutro (la sua ferita più profonda, sostiene) era stata un epico disastro. Alla presentazione della Nadef (nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) aveva mandato un solitario Giorgetti. In Tunisia si era esibita in un numero ancora mai visto: dichiarazione orgogliosa di fronte a delle sedie vuote, ma con leggìo, documenti in mano e sorriso soddisfatto a favore di telecamera. Vistoso autogol, che aveva spinto un sardonico Pierluigi Bersani a commentare: «Giornalisti, Corte dei conti, sindacati, non deve esserci niente di mezzo tra il capo e il popolo». Difficile cancellare il sospetto che avesse ragione. Giovedì la svolta, riuscita dal suo punto di vista. Un grande show per cancellare l’onta. Chiedete e vi sarà detto. La pioggia degli scoordinati interrogativi è andata a perdersi nella nebbia di repliche che un saggio collega ha ribattezzato: «la melina di Meloni». Zero notizie. Vaghezza assoluta sul Mes e sulla manovra aggiuntiva (che arriverà, scommetteteci), nulla su concorrenza, scuola, sanità, pensioni, politica estera, G7, Israele, Gaza o Palestina. E tanto meno su chi non arriva a fine mese, proprio nelle ore del “Fat Cat day” (il giorno del gatto grasso), quello in cui le Borse segnalavano come i grandi amministratori delegati avessero guadagnato in sei giorni quello che i loro dipendenti incassano in un anno. Aggiungendo, rigirando il dito nella piaga, che un manager prende mediamente trecento volte di più di un suo sottoposto (lo ha raccontato bene su queste colonne Marianna Filandri). Esattamente come succedeva cento anni fa. È passato un secolo, ma le disuguaglianze sono rimaste identiche. Ora, di fronte a problemi così giganteschi – sui quali la sinistra dovrebbe buttarsi a pesce – il punto non è se ti fanno le domande giuste (certo, sarebbe meglio), ma se tu, nella conferenza annuale per fare il punto sullo stato delle cose, hai deciso o no di affrontare il tema. Meloni ha deciso di no, preferendo tenersi le mani libere su strategie (volevo dire visioni, ma la parola è uscita dal vocabolario politico), progetti e alleanze in vista di elezioni europee che si annunciano per lei trionfali se riuscirà a non creare eccessive frizioni con gli alleati, continuando a fregare loro voti giorno dopo giorno. Per farlo le basta rimanere ambigua. Fare finta che il caso Santanchè non esista. Assolvere Salvini sulla scivolosa vicenda Anas spiegando che le intercettazioni incriminate si riferivano ai tempi di un governo non suo, come se oggi i vertici della Azienda Nazionale Autonoma delle Strade fossero cambiati. Oppure ipotizzare fantomatici complotti antigovernativi che esaltano la fantasia fuori controllo dei nazionalisti di ogni dove e dire cose del tipo: voterò per Von der Leyen senza entrare in maggioranza. Che significherebbe rinunciare al commissario che spetta ai vincitori. Ipotesi lunare. Ma che nelle orecchie dei ribelli antisistema suona ancora come se avesse un senso. Come un senso deve avere avuto la giusta e definitiva presa di distanza dal pistolero di Capodanno, il vercellese Emanuele Pozzolo, anello debolissimo di una classe dirigente imbarazzante, come la stessa premier (tra i denti e a modo suo) ha dovuto in qualche modo ammettere. Chi lo ha portato Pozzolo in Parlamento? E Delmastro? Giusto scaricare. Ma forse servirebbe un filo più di attenzione quando si carica. E non parlavo in questo caso di armi, passione piuttosto diffusa in un establishment governativo che deve avere dimenticato la più classica delle lezioni della destra di derivazione missina: il privilegio della forza è sempre dello Stato, al quale il cittadino deve rivolgersi per chiedere protezione.
Ma i Fratelli cinquantenni sembrano piuttosto cresciuti nella tradizione trumpiano-berlusconian-leghista: quella per cui la giustizia-fai-da-te è sempre legittima. Impossibile dimenticare il mitologico Joe Formaggio o la fotografia di Matteo Salvini che esibisce orgogliosamente il mitra alla fiera delle armi di Verona. Altro che i mandriani del Texas. Una considerazione sola per Elly Schlein sull’attesissimo confronto tv tra le due guide di destra e di sinistra: questa non è una sfida tra lei e Meloni (che, peraltro, impostata come un duello rusticano, è destinata a perdere), ma tra chi – con lo stesso strombazzato obiettivo di ridurre «l’enorme spettacolo delle disparità» – sogna un’Europa aperta e inclusiva e chi la vuole chiusa ed esclusiva. Purtroppo le elezioni le vinci con chi è spaventato, non con chi è felice. La destra lo sa. È il suo aspetto peggiore. La sinistra sembra non sapere niente. Soprattutto come rassicurare chi è spaventato. E qui tornano a risuonare prepotentemente le parole di Bobbio: «Avrei preferito che un grande partito di sinistra risollevasse la bandiera della giustizia sociale. Se dovessi proporre un tema di discussione, per la sinistra, oggi, proporrei il tema attualissimo, arduo, ma affascinante, della “giusta società”. Continuo a preferire la severa giustizia alla generosa solidarietà». Meloni sembra severa. Schlein generosa. Giustizia e solidarietà, nei fatti, non pervenute.