di Alfredo Morganti – 1 ottobre 2015
Sono stato ieri a dare l’ultimo saluto a Pietro Ingrao. Qualcuno ha detto che non c’era molta gente. Io penso invece che quella era una piazza particolare. Apparentemente distante dal palco, dove, accanto a familiari e amici, era schierata l’attuale Repubblica Italiana. Una piazza vicina al feretro, ma incongrua con quello spettacolo istituzionale. Anche tecnicamente ciò era palpabile. Le casse dell’impianto voci erano dirette verso il palco, non verso il pubblico. In una sorta di autoreferenzialità. Sotto non si sentiva nulla di nulla. Le istituzioni parlavano a se stesse, e i più applaudivano a fiducia. Le canzoni cantate di sotto venivano appena sussurrate di sopra. ‘L’internazionale’ è stata un’iniziativa spontanea del popolo. Solo Don Ciotti si è fatto capire col suo vocione, ma, lo dicevamo in piazza, i preti oggi sembrano farsi sentire più dei laici. Tra quel palco e la gente c’era un vuoto, insomma. Un vuoto anche fisico, al cui centro c’era il feretro di Ingrao. Che da solo ancora mediava tra palco e realtà, come direbbe Ligabue. E che presto, tornando l’ultima volta a Lenola, avrebbe cessato di farlo, lasciando il vuoto identico a se stesso. Mero simbolo di se stesso.
Sono state pronunciate, in questi giorni, parole come ‘sinistra’, ‘luna’, ‘comunismo’. Parole inattuali, che sembrano non scuotere più la maggioranza del nostro Paese. Si è detto che con Ingrao finisce la storia della sinistra comunista. È strano, ma per alcuni (di solito chi comanda) la storia finisce continuamente. Essi amano mettere dei punti finali a tutto ciò che è apparso bello e terribile, tale da scuotere le sedie da sotto il sedere a molti. Al punto da fare scandalo, turbare, sconvolgere intere società e innumerevoli coscienze. Ma, spiace per loro, la storia non finisce, perché non finiscono gli uomini (almeno sinché l’umano non cesserà di essere tale, sinché non lo sostituirà la tecnica, che oggi resta soltanto una pessima ideologia per quanto vincente). Ecco perché dinanzi all’ironia fuori luogo espressa da tanti ‘vincenti’ di oggi (che non amo) sulla luna che è restata lì nei cieli e fuori alla nostra portata di stupidi sognatori, ho apprezzato Reichlin quando si è chiesto se volessimo la luna oppure se non l’avessimo voluta abbastanza. Il dubbio è consistente.
Così come alla parola ‘perdenti’, con cui si catalogano coloro che quella luna l’avrebbero voluta volentieri, alla faccia di chi si è contentato della prosaica terra e di qualche poltrona, io preferisco la parola ‘vinti’ (anche ammettendo si sia davvero tali). ‘Vinti’ è parola nobile, esprime l’orgoglio di aver combattuto fino in fondo, ci spiega che la ‘ricchezza’ è nell’animo, non nel denaro. E soprattutto non esprime rassegnazione, ma solo una tragica consapevolezza. I vinti di oggi potrebbero essere i trionfatori di domani, c’è anche questo da dire. Ecco, Pietro Ingrao, però, non fu un vinto, tantomeno un perdente. E così per quella piazza di ieri, dove c’erano tanti vecchi e pochi, pochissimi i giovani. Pietro Ingrao fu, come tutti i grandi rivoluzionari, come coloro che vorrebbero rivoltare il mondo facendo leva su un’etica profonda, un inattuale. Uno che faticava a stare in questo mondo, perché avrebbe voluto riscriverne daccapo i contenuti, intingendo costantemente la penna nella vita umile e penosa di tutti i giorni. Uno che faticava a contentarsi dell’attualità, che voleva capire e non si contentava dei brandelli sconnessi di cui l’attualità medesima è travolta. Un inquieto, un’energia politica dirompente al servizio di una soluzione storica lontana, difficile. Ma nondimeno possibile.
Parlo del ‘mio’ Ingrao, ovviamente. Celeste dal palco ha detto una cosa bellissima: “Ognuno ha il suo Pietro da piangere”. E così è, difatti. Ognuno di quelli che erano lì, aveva un suo Ingrao da piangere. Parafrasando un vecchio brano del Perigeo, potrei dire: abbiamo tutti, ancor oggi, un Ingrao da piangere. Forse perché ‘vinti’, forse perché inattuali, forse perché immersi nel vuoto in cui il vecchio è tramontato e il nuovo non è ancora sorto. Una condizione chissà quanto lunga ancora. Ieri, la bara di Pietro è stata forse l’ultimo lacerto, l’ultimo striminzito brandello che ancora univa il popolo là raccolto alla Repubblica Italiana assiepata sul palco. Senza altri uomini così, e forse senza altri partiti di massa, istituzioni forti, cultura diffusa, pienezza di valori al posto di meri ‘valutati’, quel vuoto è destinato a ingigantirsi, a divenire deserto, a mangiarsi tutte le coscienze. Immaginate se davvero il leader (di sopra) si limitasse alle decisioni da leader, e il popolo (di sotto) facesse solo primarie, referendum e mettesse ‘mi piace’ sotto i post, immaginate in questo caso che fine faremmo.
La vecchia generazione ci ha spiegato che le cose non stanno così, che serve una connessione tra popolo e democrazia, una connessione forte, insuperabile come nella resistenza, come durante le stragi, come quando fu ucciso Moro. Senza quella è finita. La nuova generazione, collocata sul palco e composta anche di vecchi, non solo di ragazzini, si limita invece a dire ‘abbiamo vinto, mettetevelo in mente, da oggi si fa così’. Non hanno capito la lezione. Sono gli stessi che ieri non cantavano (o solo flebilmente) ‘Bella Ciao’. Che non è una canzone, ma un inno d’amore e un canto di battaglia. Amore e guerra. Non si illudano allora. Altro che perdenti. Io credo che Pietro non sia in pace nemmeno ora. Tranquillo, addormentato, con una visione forse più ampia delle cose, ma non in pace. Perché la pace è uno scuotimento dell’animo, un grido di ribellione ai mali del mondo, una forma di lotta, una cosa da inattuali, non da perdenti. È questa la pace di Pietro Ingrao contro il vuoto di questo tempo della miseria.



