Fonte: La Stampa
La capitolazione dei popolari
Caro direttore, eravamo quasi contenti, noi democristiani. Sì, in Italia c’era crollato il mondo addosso, il nostro partito era finito male e i mille tentativi di mantenere vivo il suo spirito si erano infranti sugli scogli dell’impossibilità. Ma in compenso c’erano i cristiano-democratici tedeschi ad allietare il nostro spirito. Loro avevano conservato le insegne di Adenauer, avevano a suo tempo unificato il loro Paese e abbattuto il muro di Berlino con Kohl, avevano poi animato quel tanto di europeismo che serviva a tenere aperta una prospettiva con la Merkel e ora, tornati al governo, sembravano quasi poter realizzare quel prodigio di eternità politica che a noi invece era stato precluso. C’era almeno di che consolarsi.
Le cronache non sempre così appassionanti di quel tanto di retaggio democristiano che da noi era riuscito a varcare i confini della Seconda Repubblica e a sopravvivere in un contesto così poco amichevole potevano essere lenite un po’ dai gloriosi ricordi del passato lontano e un po’ dalle più incerte prospettive che si intravedevano oltreconfine. C’era stato quel famoso cappotto rattoppato con cui De Gasperi aveva varcato l’Atlantico in cerca di quel tanto di solidarietà che serviva a ricostruire un Paese che il fascismo e la guerra avevano fatto a pezzi. E c’era poi, subentrato negli ultimi tempi, quel tanto di glamour manageriale che i nostri giorni assegnavano all’eterna Von der Leyen, presidente della Commissione europea, e al più recente Merz, cancelliere di una Germania che ambiva a tornare solida e potente. Una storia italiana antica e luminosa finiva così per venire rischierata da qualche emulazione che l’Europa dei nostri giorni, a guida soprattutto tedesca, lasciava almeno intravedere.
Ora, dare la colpa ai solo democristiani tedeschi può suonare ingeneroso. Poiché quell’accordo contiene una quantità di altre firme, di tanti Paesi e di tanti colori politici. E anche poiché le difficoltà, gli squilibri, le incognite erano così tante e così forti da farci pensare che perfino i grandi vecchi dell’europeismo e della democristianità di un tempo avrebbero avuto il loro bel daffare per riuscire a venirne a capo in modi non dirò vantaggiosi, ma almeno dignitosi.
Troppo facile insomma dar la croce addosso solo agli ultimi venuti. I quali a loro volta hanno ereditato tutte le difficoltà e le fragilità che un mondo così turbolento ha fatto cadere sulle loro spalle. Questo non toglie però che quelle spalle si siano rivelate assai poco robuste e che quelle firme apposte a un atto tanto arbitrario abbiano dalla loro così poca gloria da indurre un po’ tutto il concerto europeo a interrogarsi su come si sia potuti arrivare fino a questo punto estremo di capitolazione.
Non s’è visto all’opera lo spirito conciliante dei democristiani d’una volta. Piuttosto una rassegnazione inedita che costringe anche noi, ultimissimi democristiani, a chiederci se non era il caso di battersi con uno spirito meno irenico di quello messo in mostra al cospetto del presidente americano tra un tiro e l’altro della sua possente mazza da golf.
Così ora a noi, democristiani residui, resta solo la consolazione del vecchio, logoro cappotto di De Gasperi, esibito alla Casa Bianca d’altri tempi con un senso del decoro e della dignità che sembra perduto in un’epoca troppo antica. E troppo diversa da quello che a questo punto ci tocca in sorte.
Resta il fatto che la tempra dei nostri padri era tutta un’altra cosa.


