Fonte: La Repubblica
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LA CONGIURA CONTRO I GIOVANI – DI STEFANO LAFFI – ed. FELTRINELLI
Stefano Laffi, ricercatore esperto in culture giovanili, invita gli adulti ad accettare il cambiamento, a farla finita con l’attacco e l’esclusione di quella fetta della società che sola potrebbe salvare la società
Di giovani si parla e si sparla molto. Ma poco o nulla si fa per loro. Adulti e istituzioni dichiarano di ritenerli centrali per il futuro, eppure non viene loro riconosciuto né l’effettivo diritto di parola, né la piena cittadinanza. E sono proprio coloro che denunciano e lamentano la situazione giovanile che, rifiutando ogni cambiamento del loro modo di pensare e di comportarsi, si limitano a difendere le loro rendite di posizione, senza lasciare il passo alle nuove generazioni. Ma, poiché tutto sta velocemente mutando, non è possibile, (pena il collasso del sistema), escludere dalla realtà proprio coloro che della rapida trasformazione in atto dovrebbero essere i protagonisti, per età e per logica. Il monito emerge dall’ultimo libro di Stefano Laffi, ricercatore sociale ed esperto in culture giovanili, consumi e dipendenze che in La congiura contro i giovani, in libreria per Feltrinelli, invita gli adulti a uscire al più presto dalla crisi e ad accettare il cambiamento.
Da tempo, sostiene Laffi, è in corso un attacco nei confronti dei giovani, mascherato con l’ipocrisia e camuffato da riflessione, cura, sensibilità educativa e che invece è soltanto mercificazione, umiliazione, patologizzazione. In sostanza, da una parte gli adulti si dicono preoccupati per i giovani che non hanno futuro nel lavoro, nella società, e che non possono avere speranze di rendersi autonomi e trovare una loro strada; dall’altra li si isola, li si iperprotegge, ma per confinarli fuori dall’universo del lavoro, senza nulla concedere, frustrandone creatività e voglia di rischiare con l’indifferenza e la solitudine.
Ed è tutta la nostra società che, pro giovani nell’immaginario e nelle affermazioni, si rivela invece gerontocratica nei fatti. A loro dedichiamo parole “corrotte” e definizioni, ma li usiamo come alibi degli adulti in crisi d’identità che stanno perdendo il controllo del mondo che conoscono e non si rassegnano a cedere il passo. Una via d’uscita, urgente e necessaria però c’è, suggerisce Laffi, ed è praticabile a patto che si accetti di cambiare a trecentosessanta gradi il modo di comportarsi e di pensare e che le istituzioni escano dall’immobilismo, per operare, finalmente, in favore delle nuove generazioni. Per farcela è necessario trasformare insieme, adulti e giovani, la società e affidarci a loro per scoprire e sperimentare.
Giovani in crisi, di chi sono le responsabilità?
“Quando si parla di “giovani in crisi” credo sia importante intendere non un presunto collasso di motivazione e di fiducia dei ragazzi rispetto alle sfide che li attendono, ma la mancanza di opportunità e di possibilità, che si manifesta nel non trovare esperienze, lavoro, soldi, casa, ma più in generale nel non aver voce, non poter incidere in nulla della realtà che li circonda. La crisi è di cittadinanza, è il non aver diritti davvero esigibili, è crescere sapendo di non poter incidere sul proprio mondo. Tutto lo spazio che li circonda è saturo, è impermeabile ad esigenze di gioco ed espressività, è popolato e normato da adulti, non ha vuoti nei quali agire: le città non li prevedono, parlano a bambini e ragazzi solo in termini di divieti e regole, il paradosso è che solo le affissioni pubblicitarie li evocano per sedurli, tocca entrare in un bar per esistere, ma come consumatori, o in consultorio adolescenti, come utenti. L’esilio di bambini, ragazzi e giovani dall’arena delle discussioni, delle decisioni e delle azioni pubbliche parla in ultima analisi della “crisi degli adulti”, ecco di chi sono le responsabilità: non si vuole più cambiare e non si vogliono cedere le rendite di posizione, ci si illude di poter fare come ieri perché è l’unico modo che si conosce, se non è la paura a guidare gli adulti quando sentono la loro inadeguatezza agli strumenti di oggi. Il fatto è che questa sarà comunque un’epoca di cambiamenti – tutto sta mutando, come leggiamo e scriviamo, come nasce un’amicizia e un amore, come studiamo e come viaggiamo – di cui gli interpreti migliori sono proprio quelli che si vorrebbe escludere”.
Quali sono le cause che hanno portato i giovani alla situazione di oggi?
“Non credo ci sia un muro alla fine di una corsa sfrenata, non penso che non trovar lavoro o credito in banca sia per un ragazzo una bruciante sorpresa, perché c’è nato e cresciuto nella mancanza di riconoscimento. Ci sono generazioni adulte che non vogliono cedere potere e privilegi e si nutrono di questo immobilismo, per questo nel libro parto dalla nascita, mostrando un meticoloso processo di annichilimento del potenziale di cambiamento che i più giovani avrebbero. Pensiamo alla “normalizzazione” dell’infanzia, a come sin dalla nascita si sia circondati da attese e norme di riferimento, fatte prima di parametri medico-clinici, e poi di progressi evolutivi per inorgoglire i genitori, e poi di performance scolastiche o di desideri indotti dal mercato fin dai due anni di vita. Così addestrati a rispondere alla norma e ad altro da sé, si potrà mai credere nel proprio contributo? È un esempio banale, ma se la scuola usa solo “domande illegittime” (ovvero quelle in cui chi domanda conosce la risposta e chi risponde sa di dover indovinare quella giusta) potranno mai i ragazzi pensarsi ed esercitarsi come portatori di pensiero originale? Più tardi comincia invece la “patologizzazione” dell’adolescenza, che è sempre pensata come problematica, a rischio, trasgressiva, e la sua fame di esperienze e prove viene vista con sospetto, se non inibita letteralmente, al contrario dei loro corpi, rubati dal mercato, per farne oggetto di consumo. Si arriva così all’ultimo atto, “l’umiliazione” dei giovani, nei colloqui di lavoro, nella considerazione di quello che hanno studiato, nella gratuità di tutto quello che dovrebbero fare, nelle mansioni loro affidate, negli abusi di potere che devono subire. Cinismo, disincanto, ritiro sociale, spaesamento, tristezza: possiamo davvero sorprenderci se compaiono a 15 o 20 anni, cioè alla fine di questa carriera?”
C’è una via d’uscita?
“Non solo c’è ma è obbligatoria, è urgente, e la buona notizia è che libera tutti. Certo, dobbiamo accettare una condizione, quella di esser disposti al cambiamento. Ma partiamo dalla constatazione che la maggior parte delle nostre istituzioni non funzionano, sono in affanno, disorientate: vale per le famiglie, dove i genitori si separano e non sanno come star dietro ai figli, vale per le aziende che sono in crisi, vale per l’istruzione e la formazione che non sanno quali competenze formare e sono superate dagli allievi rispetto al digitale, vale per la politica al minimo storico di fiducia… A furia di escludere i più giovani da tutte le istituzioni ci troviamo oggi intrappolati in routine quotidiane che non funzionano, sono lente, burocratiche, irreali nei tempi e nelle richieste. Bene, in ogni epoca di cambiamento si sa che avviene un ribaltamento dei saperi, la tradizione perde la forza di guida, sono i più giovani i nostri pionieri, saranno loro a guidarci. Certo, senza un’esperienza di riconoscimento sociale sin dall’infanzia non sarà facile ribaltare i ruoli, ma loro nell’incertezza ci sono nati e usano le strategie cognitive più adatte, che dobbiamo imparare da loro: muoversi per tentativi senza certezza sulle mete, valorizzare gli errori perché ricchi di informazioni, moltiplicare i campi di esperienza perché utili a misurare le nostre capacità, scambiarsi saperi e scoperte in modo orizzontale perché non serve chiuderli a chiave, prendere e partire, muoversi insieme per sostenersi e favorire l’apprendimento, superare i confini disciplinari perché la realtà è una e non segmentata… La via di uscita è questa, cambiare insieme questa società e affidarci a loro per scoprire e sperimentare. In alcune aziende c’è già il reverse mentoring e in fondo nel volontariato è normale che un ragazzo insegni a un cinquantenne appena arrivato. Forse ci siamo dimenticati che le più grandi invenzioni del ‘900 sono state fatte da scienziati che avevano fra i 20 e i 30 anni”.


