La diaspora

per Gabriella
Autore originale del testo: Alessandro Gilioli
Fonte: l'Espresso blog Piovono Rane
Url fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/?s=la+diaspora

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L A DIASPORA. DOV’E’ OGGI LA SINISTRA ITALIANA – DI ALESSANDRO GILIOLI – ed. IMPRIMATUR

di Alessandro Gilioli

Il libro che avete tra le mani è un’indagine sulla sinistra italiana. Quella che secondo alcuni è sparita e secondo altri, invece, ha stravinto le ultime elezioni europee. Due visioni estreme: e chi leggerà le pagine che seguono vedrà che sono un po’ sbilenche entrambe.

Questo libro è diviso in tre parti.

La prima è sul passato più recente. Il periodo preso come punto di partenza è il biennio tra il 2007 e il 2009.

Il 2007 è l’anno in cui è nato il Partito democratico e in cui Beppe Grillo ha tenuto il suo primo V-day. Nel 2008 il Pd ha perso le elezioni, la sinistra radicale è scomparsa dal Parlamento, Grillo ha lanciato le sue prime liste civiche. Nel 2009 è implosa la segreteria Veltroni, con la sua ambizione di riunire tutta la sinistra italiana in un unico partito plurale e “a vocazione maggioritaria”, mentre lontano dai riflettori nasceva il gruppo dei rottamatori che avrebbe aperto la strada a Matteo Renzi; in quello stesso anno è stato fondato il Movimento 5 Stelle e si è diffusa la protesta di piazza contro il governo Berlusconi. Partendo da quel biennio, in questa prima parte si sono analizzati quindi gli sviluppi successivi, fino alle elezioni politiche del 2013 e a quelle europee del 2014. La ricostruzione storica non è però proposta in modo strettamente cronologico, ma attraverso le diverse forme in cui le persone e le rappresentanze della sinistra si sono manifestate, evolute o involute.

La seconda parte del libro è sul presente. E qui l’indagine è concentrata sulle tre forze politiche verso le quali si indirizza l’elettorato della sinistra italiana: il Pd di Renzi, il Movimento 5 stelle e l’area della lista Tsipras. Manca la quarta area in cui questi elettori sono defluiti: l’astensionismo. Ma questo non è, evidentemente, un soggetto politico.

L’ultima parte di questa ricerca è sul futuro, quello più prossimo nel tempo. E ha anche la piccola ambizione di fornire agli elettori e agli attivisti della sinistra italiana qualche strumento utile in termini costruttivi: niente di sistematico, solo mattoni e tasselli.

Il libro è intessuto di colloqui con alcuni protagonisti della politica che, con le proprie testimonianze e le proprie opinioni, contribuiscono alla rappresentazione storica, alla fotografia del presente e alle prospettive per il domani. I virgolettati dei personaggi intervistati sono spesso molto difformi tra loro: e non sempre chi li ha raccolti concorda con essi. Ma costituiscono comunque i fili di un ordito e di una trama il cui risultato finale – in termini di interpretazione, di tesi e di proposte – risulterà chiaro a chi leggerà questo libro. O, almeno, qui ce lo si augura.

Piovono Rane

Pubblico qui di seguito un brano da “La Diaspora. Dov’è finita la sinistra italiana”, in libreria per Imprimatur. È tratto dal capitolo 5, “Inseguendo il loden”

Sopravvissuto agli scandali sessuali, alla scissione di Fini, alle vicende giudiziarie, alle sentenze della Consulta sulle leggi ad personam, alle sconfitte nelle amministrative e nei referendum, il governo Berlusconi IV viene abbattuto alla fine del 2011 dalla crisi economica, dall’esplosione dello spread, dalle pressioni internazionali, dallo spettro di un commissariamento dell’economia e quindi dallo smottamento ulteriore della sua già fragile maggioranza: che l’8 novembre, alla Camera, si ferma a 308 voti.

Il giorno dopo Giorgio Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita. La sera del 12 Silvio Berlusconi sale al Quirinale per dare le dimissioni. Tutto attorno, una folla festante. Il soprano Anna De Martini, che aveva già portato la sua orchestra alla manifestazione “Se non ora quando” di piazza del Popolo, chiama a raccolta i musicisti con cui lavora e inscena un piccolo concerto: l’Hallelujah di Händel finisce su tutte le tv del mondo. Il mattino dopo, domenica 13, il presidente Giorgio Napolitano dà l’incarico a Monti, sostenendo tra l’altro che «tutti dovrebbero concordare sull’esigenza di evitare un precipitoso ricorso al voto».

«Si giocò tutto in poche ore e adesso, con il senno del poi, è facile giudicare. Quindi quello che dico non va inteso come un attacco alle decisioni prese in quei momenti, con lo spread sopra i 500 punti, l’emergenza economica, il rischio default dietro l’angolo. Però, certo: dopo la caduta del governo Berlusconi avremmo potuto e dovuto fare scelte diverse. E, in ogni caso, Monti avremmo dovuto farlo cadere noi parecchio prima, nella primavera del 2012, per andare a elezioni quell’autunno». Stefano Fassina in quel periodo era nella segreteria del Pd, come responsabile del lavoro: uno degli uomini più vicini a Bersani. Oggi, guardando indietro, ammette che accettare il governo dei tecnici è stato un grave errore.

A cascata, tutti gli errori successivi.


Primo, il voto favorevole alla riforma delle pensioni. «Anche qui, è chiaro che abbiamo sbagliato», dice Fassina. «Però la legge Fornero era contenuta nel decreto di stabilità approvato in fretta e furia appena Monti era diventato premier e in quel momento non c’erano le condizioni per fare diversamente. Eravamo consegnati nelle mani del Professore, che era considerato da tutti il salvatore della patria. Quella cosa fu approvata in cinque giorni: ci sentivamo in emergenza completa. E poi avevamo appena votato la fiducia al governo Monti: sull’atto più importante, la legge di stabilità, quello su cui era nato lo stesso governo, non potevamo fare altro».

Errore successivo, aver sostenuto l’esecutivo anche quando Berlusconi lo aveva già mollato: «Dopo le elezioni amministrative del maggio 2012 il capo del Pdl era ancora formalmente nella maggioranza, ma si comportava come se fosse all’opposizione», ricorda Fassina: «Insomma noi siamo rimasti lì con il cerino in mano a sostenere da soli le politiche di austerity. Io allora ebbi l’ardire di dire che dovevamo anticipare la nuova legge di stabilità e andare a votare a ottobre, ma fui massacrato in modo pesantissimo nel mio stesso partito, con tanto di richiesta di dimissioni. Penso che invece avremmo dovuto fare proprio così. Cioè dire: “questa è stata l’emergenza ma non può essere il nostro programma, noi abbiamo un altro progetto e adesso che la fase più grave è passata si va alle urne”. Ripeto: fui bastonato pesantemente, solo per averlo proposto».

Ulteriori errori, elenca Fassina, il fiscal compact e il pareggio di bilancio: «Averli appoggiati fa parte di quella subalternità che ha viziato il Pd fin dall’inizio. Se avessimo avuto una qualche autonomia culturale, noi di sinistra, avremmo potuto pressare Monti per ottenere almeno delle clausole migliori. Lo sbaglio nostro, quello che sta alla base di quelli successivi, era appunto precedente: stava nella versione soft del paradigma liberista adottata dal mio partito fin dal discorso di Veltroni al Lingotto. Nasce tutto da là».

Ancora più duro sul passaggio che segna la nascita del governo Monti è il segretario della Fiom, Landini: «La sinistra non aveva alcuna proposta alternativa a quello che ci avevano detto di fare Trichet e Draghi nella loro lettera dell’estate 2011. Così, quando cadde il governo Berlusconi, si scelse di non andare a votare e di appoggiare il governo dei tecnici. Fu un errore tragico: per un anno ci siamo bevuti la ricetta imposta dalla Troika, dalla riforma delle pensioni al pareggio di bilancio. L’appiattimento del Pd a quelle politiche, durante quel periodo, è stato decisivo nell’aprire le praterie al risultato di Grillo nel 2013».

Vincenzo Vita, ex senatore Pd, offre un racconto di quei giorni ancora caldo di emozione e a tratti agghiacciante: «Il partito non aveva capito l’importanza di quello che stava facendo. Quando cercavo di spiegare ai colleghi del mio gruppo che stavamo votando una cosa demenziale, tutti mi rispondevano: “ma Vincenzo, qui cade il governo”. Non ci fu nemmeno l’agio di un confronto né nel partito né tra i parlamentari: neppure sul pareggio di bilancio che pure ebbe un percorso lungo, in quanto modifica della Costituzione. Niente: era una cosa calata dall’alto e noi dovevamo adeguarci per non far cadere Monti. Io ci provai fino all’ultimo: ancora nel giorno del voto finale, nell’aula di Palazzo Madama, passai tra i banchi dei miei compagni per cercare di parlare con loro a uno a uno, ma senza alcun successo. Mi dicevano: “lascia stare, dai, lascia stare”. Perfino Ignazio Marino, di cui ho grande stima, mi rispose: “Vincenzo, non ho studiato bene il dossier”. Ma quale dossier? Ma cosa c’era da studiare? Era evidente che non aveva alcun senso quella roba, proprio a livello di logica elementare. Ci stavamo mettendo in una gabbia di ferro da soli, senza motivo, e lo stavamo facendo perché “altrimenti cadeva il governo”. Rimasi quasi solo. E non mi riferisco soltanto al mio partito, ma anche al mondo della sinistra italiana, che con pochissime eccezioni non comprese assolutamente la rilevanza di quel passaggio».

Prosegue la pubblicazione di stralci da La Diaspora. Dov’è finita la sinistra italiana”. Questo brano è tratto dal capitolo 6, “Ro-do-tà”

All’appuntamento verso l’elezione del presidente della Repubblica si arriva con un solo candidato già ufficializzato da una forza politica: è Stefano Rodotà, terzo arrivato nelle consultazioni on line del M5S dopo Milena Gabanelli e Gino Strada, che però hanno declinato. Quindi Rodotà è la persona che i grillini decidono di votare, convinti (dice Lombardi) che «su un uomo così la sinistra non avrebbe potuto non convergere». Lui accetta ma invece sa di avere pochissime chance: «Conosco i meccanismi della politica, li conosco bene», racconta oggi. «Perciò mi davo all’uno per cento delle possibilità, non di più. Ho detto sì alla proposta dei Cinque Stelle perché pensavo e penso che in determinate situazioni ci si debba mettere in gioco di persona: sapevo che lo scenario verso cui si andava era quello delle larghe intese e ritenevo che se c’era anche una minima speranza di evitarlo attraverso il mio nome, era mio dovere essere disponibile».

(…) Al secondo scrutinio, nel pomeriggio del 18 aprile, Pdl e Pd decidono di votare scheda bianca per prendere tempo, mentre il M5S e Sel continuano a votare Rodotà. Ma quel pomeriggio i due capigruppo grillini, Crimi e Lombardi, non sono a Montecitorio: «Rodotà ci aveva telefonato per chiedere a me e Roberta di raggiungerlo a casa sua», racconta Crimi. «Ci andammo subito e trovammo una persona splendida ma piena di dubbi. Stava pensando di fare un passo indietro per lasciare spazio a Prodi, di cui si iniziava a parlare come possibile presidente dopo quello che era avvenuto il giorno prima con Marini. Cercammo di discuterne un po’ con lui, ma la decisione sembrava presa. Iniziammo perfino a buttar giù un comunicato stampa insieme. Poi a un certo Roberta lo guardò negli occhi e gli chiese: “Ma sei proprio convinto di quello che stai facendo?”. Lui ci pensò un attimo, sorrise e poi disse: “No, veramente no”. Così ricominciammo a parlare e alla fine si decise insieme di cambiare il comunicato: dal “faccio un passo indietro” al “sono pronto a fare un passo indietro se sono d’ostacolo”. Secondo me, Rodotà voleva mandare un messaggio al Pd e si aspettava che da loro qualcuno gli chiedesse, nel modo più ufficiale possibile, di ritirarsi. Invece non lo chiamò nessuno, nemmeno in privato. Nessuno dei vertici, intendo: solo esponenti come Felice Casson, Marino, Civati. Quindi la sua candidatura rimase viva e noi, senza una sua vera rinuncia, continuammo a votarlo in modo compatto». Ma il M5S cos’avrebbe fatto se invece Rodotà si fosse ritirato? «Probabilmente, a caldo, saremmo andati in aula in ordine sparso», risponde Crimi: «Una parte avrebbe votato Prodi, un’altra no».

Roberta Lombardi conferma la versione di Crimi: «Rodotà aveva sentito per telefono Prodi, che stava in Africa, e aveva l’impressione che l’ex presidente del Consiglio potesse essere una scelta meno divisiva rispetto al suo nome. Ma non era davvero determinato a ritirarsi, anche perché era stato completamente ignorato dal partito da cui proveniva. Così uscì quel comunicato “possibilista”».

Stefano Rodotà medesimo, tuttavia, smussa un po’ la ricostruzione dei due ex capigruppo Cinque Stelle: «Loro volevano continuare a votarmi, sulla base dell’indicazione avuta via internet, quindi mi chiesero di non ritirarmi formalmente. Io invece pensavo che Prodi potesse essere una buona soluzione per impedire le larghe intese. Quel comunicato quindi fu un po’ una mediazione. E comunque io non ero proprietario dei loro voti: non potevo impedirgli di indicarmi come presidente, non sarebbe stato neanche leale nei loro confronti. Quindi in sostanza gli dissi: da questo momento, votate come vi pare. Ma non penso che avrei fatto un passo indietro più formale e definitivo se mi avessero chiamato dal Pd, specie dopo quello che era successo all’inizio di tutta la vicenda: quando si erano rifiutati di votarmi dicendo “non è dei nostri”. Ma come “non è dei nostri”? Sono stato parlamentare eletto nelle liste del Pci dal 1979 al 1991, poi primo presidente del Pds: come potevano dire “non è dei nostri”?».

Prosegue la pubblicazione di stralci da La Diaspora. Dov’è finita la sinistra italiana”. Questo brano è tratto dal capitolo 7, “Nel gorgo del Pd”

«Quando è nato il governo Renzi e si è posta la questione di votargli o meno la fiducia, siamo stati a un passo dalla scissione. E non escludo che molte cose possano ancora accadere. Ma io non voglio fare un partitino della sinistra radicale incazzato contro tutti gli altri, anche del 5 o del 10 per cento: io voglio fare la sinistra che governa. E allora bisogna capire qual è il percorso migliore per arrivarci»: Pippo Civati oggi è considerato il capofila della sinistra interna al Pd e dell’opposizione alla segreteria di Renzi. E, al contrario dell’altra componente di minoranza (quella che alle primarie ha sostenuto Gianni Cuperlo e oggi ha come leader Roberto Speranza) l’area Civati proviene da anni di contestazione aperta anche alla vecchia dirigenza e di proposte per un partito molto più aperto in tema di diritti sociali, civili, ambientali e digitali.

La corrente Civati, come si è visto, è nata prima attorno al suo blog Ciwati.it poi nel lungo percorso durante il quale si è intrecciata con Renzi per poi distaccarsene. Forte di 400 mila voti alle primarie («quasi quanto quelli di Cuperlo, ma lui ha centinaia di parlamentari, con me stanno si e no una ventina», dice lui), è considerata sempre lì lì per andarsene, per fare un gruppo parlamentare autonomo magari insieme a Sel e agli ex grillini espulsi. Civati del resto è stato “eretico” fin dall’inizio di legislatura: quando, appena eletto deputato, aveva tentato in ogni modo di aprire un canale di comunicazione con il M5S per tentare una maggioranza insieme; quando, come si è visto, aveva inutilmente cercato di portare il suo partito verso una candidatura per il Quirinale in comune con i Cinque Stelle; quando si era allontanato manifestamente dall’Aula per non votare il primo governo di larghe intese; fino a quando si era violentemente scontrato con i governisti del suo partito, ai tempi di Letta premier, in occasione della sfiducia individuale verso l’allora guardasigilli Anna Maria Cancellieri (caso Ligresti). E così via, fino alla dichiarata contrarietà nei confronti dell’operazione con cui Renzi ha preso il posto dello stesso Letta conservandone però l’alleanza con il centrodestra di Alfano.


In quest’ultima occasione, appunto, Civati ipotizza seriamente lo strappo, cioè il rifiuto di votare la fiducia con tutte le conseguenze del caso, tra cui quella di dover probabilmente uscire dal partito. Lo fa con un post sul suo blog, intitolato: “Quasi quasi fondo il Nuovo Centro Sinistra” (…). Poco dopo lancia anche un referendum on line, nel quale chiede a chi l’ha votato alle primarie di scegliere: il 50,1 per cento gli suggerisce di dare la fiducia a Renzi, il 38,5 di votare contro, il 10,7 di astenersi: «E giuro che erano i numeri veri», dice Civati.

Il confronto non avviene solo on line ma anche di persona, a Bologna, dove pochi giorni dopo il parlamentare dissidente convoca un’assemblea dei suoi supporter: arrivano un migliaio di persone, tra cui alcuni parlamentari come Sandra Zampa e Davide Mattiello. Le voci sono diverse e non manca chi vuole lasciare il Pd, ma tre quarti degli interventi sono invece per evitare la rottura, usando piuttosto il Pd per «preparare il nuovo centrosinistra»: qualcuno in sala evoca il fantasma di Fausto Bertinotti come esempio negativo di frazionismo a sinistra che non porta da nessuna parte se non alla marginalità. Racconta Civati: «Non fu una decisione facile, ma alla fine ho fatto una valutazione di carattere politico generale: potevo prendere, lì, la decisione di lasciare che devastassero il Pd con tutti i suoi elettori “buoni”, quelli di sinistra? Quanti di loro ci avrebbero seguito altrove? Mi faceva incazzare l’idea che ad andare via dovessimo essere noi mentre la missione per cui il Partito democratico era nato è proprio quella di governare a sinistra, cioè quello che diciamo noi. Io quel giorno ho voluto la bandiera dell’Ulivo, in sala, perché è a quel progetto che noi ci rifacciamo. Se fossimo usciti dal Pd in quel momento la cosa sarebbe stata intesa come un’ennesima scissione della sinistra radicale, minoritaria: e non è questo lo scopo per cui faccio politica. Non mi interessa fare “il partito Tsivati”, cioè noi della sinistra Pd più la lista Tsipras». Il risultato dell’incontro di Bologna tuttavia è quello che a molti sembra una resa, cioè la decisione di votare la fiducia al governo Renzi dichiarandosi pubblicamente contrari: quella che lo stesso Civati chiama «una fiducia sfiduciata» (…).

Lo spettro che vuole scacciare Civati è quello affiorato all’incontro di Bologna, quando i suoi l’hanno convinto a non lasciare il Pd: cioè quello di Bertinotti. «Perché lui ha interrotto proprio quell’idea che io invece voglio far rivivere, quella che stava alla base dell’Ulivo: una sinistra aperta, sociale, laica, plurale, europea, nettamente diversa dalla destra ma che voglia governare, mediando con gli altri solo con il consenso dei suoi elettori e non per la convenienza dei suoi dirigenti», dice Civati. Ora però, continua il parlamentare monzese, «la domanda sospesa a cui bisogna rispondere è: il Pd ha a cuore quella missione storica dell’unità del centrosinistra o no? Io inizio a pensare di no e temo che la prospettiva sia invece sempre di più quella di un confronto palazzo-piazza: da un lato il Partito democratico alleato al centrodestra, dall’altro Grillo. Se questo scenario si confermasse, a quel punto sarebbe difficile non uscire. Ma allora bisognerà uscire anche dal Parlamento: ricominciare daccapo sui territori, nelle strade, nelle città e nei paesi. Se dobbiamo andare via, io vorrei portarci tutti».

Prosegue la pubblicazione di stralci da La Diaspora. Dov’è finita la sinistra italiana”. Questo brano è tratto dal capitolo 8, “Bella Tsi”

(…) Lo scontro interno alla Lista Tsipras resta dietro l’angolo e regolarmente esplode, poco dopo, quasi a dimostrare che la lista è davvero di sinistra. L’occasione è la composizione delle candidature, che viene gestita da un gruppo variegato presieduto da Massimo Torelli e in cui è sempre preponderante la presenza di Alba, ma dove Sel e Rifondazione hanno diritto a presenziare con uno o più delegati.

Il loro numero del resto non è così fondamentale: il potere decisionale infatti resta comunque nelle mani dei sette garanti, che hanno stabilito alcuni rigidi paletti. Ad esempio, per evitare l’assalto degli apparati e dei riciclati viene esclusa la candidatura di parlamentari uscenti, italiani o europei, e di esponenti nazionali di partito. Le proposte, decidono i garanti, devono arrivare al neonato sito della lista sottoscritte da almeno 50 persone o da un’organizzazione, un’associazione, un partito: insomma un soggetto politico collettivo realmente esistente. Poi gli stessi garanti si riservano il diritto di accettarle o respingerle.

Le riunioni decisive si tengono quasi sempre in audioconferenza via internet (Torelli abita a Firenze, Gallino e Revelli a Torino, Flores a Roma, Viale a Milano, Spinelli è spesso a Parigi) ed è in questo modo che si selezionano i 73 candidati tra gli oltre 200 proposti. Non è un’operazione facile: tra l’altro si vuole mantenere il più possibile l’equilibrio di genere ma tre quarti dei nomi pervenuti sono di maschi, soprattutto nel collegio Sud e in quello delle Isole. In più, bisogna comunque garantire una rappresentanza ai due partiti più organizzati, più radicati sul territorio e in condizione di finanziare la campagna elettorale, cioè Sel e Rifondazione.


I sei garanti italiani e il delegato di Tsipras, essendo in numero dispari, si accordano per decidere a maggioranza, ma ogni nome è oggetto di discussioni accesissime, al limite della rottura. Che avviene infine quando si affronta il nodo di due specifici aspiranti candidati: l’ex leader no global Luca Casarini e l’europarlamentare uscente Sonia Alfano. Il primo, amico personale di Tsipras da anni, ha partecipato agli incontri fra gli italiani e i greci fin dall’inizio, senza nascondere l’intenzione di correre («Non mi sono mai candidato a niente in vita mia, questa volta voglio farlo»).

Tuttavia Flores d’Arcais, cultore della legalità e molto lontano dal mondo dei Disobbedienti, non vuole sentirne parlare e contro il nome di Casarini fa le barricate, mentre Torelli lo difende. La questione va poi a intrecciarsi con quella di Sonia Alfano, che invece Flores vuole a tutti i costi perché ne stima le battaglie contro la mafia condotte sia in Sicilia sia nel suo primo mandato a Bruxelles, dove era stata eletta nel 2009 con l’Italia dei Valori e grazie all’appoggio di Beppe Grillo. Peccato che la Alfano sia, appunto, un’europarlamentare uscente, quindi la sua candidatura vada a scontrarsi con le regole che i garanti stessi hanno fissato: e una deroga sul suo nome aprirebbe inevitabilmente le porte a tutti i capipartito.

Alla fine Flores viene messo in minoranza sia su Casarini sia su Sonia Alfano, il che ne provoca l’immediata e polemica reazione: decide infatti non solo di ritirarsi dal comitato dei garanti, ma anche di portare con sé Andrea Camilleri, che aveva accettato di prendere parte all’avventura soprattutto per la sua antica amicizia con Flores e non aveva partecipato alle riunioni, delegando lo stesso direttore di “Micromega”. Gli altri garanti cercano di recuperare almeno lo scrittore siciliano, nome noto e popolare, che tuttavia si nega al telefono e attraverso la sua assistente fa sapere che quel che decide Flores d’Arcais per lui va bene.

Sicché, a metà marzo, tutti i giornali possono già titolare “La lista Tsipras va in pezzi”, notizia difficile da smentire dato l’accaduto. I garanti italiani restano in quattro, che di fatto diventano presto tre o addirittura due: il sociologo Luciano Gallino, infatti, non è attivo in alcuna delle riunioni successive, complice anche la distanza fisica e l’età (87 anni); Barbara Spinelli invece continua a collaborare, ma essendo l’unica tra i garanti a essersi anche candidata (e in più circoscrizioni) teme che una sua presenza eccessiva possa costituire un conflitto d’interessi. Inoltre da subito, cioè appena contattata da quelli di Alba, Spinelli aveva posto come condizione una sua posizione defilata, sentendosi tanto aliena dai meccanismi della politica quanto allergica alle interviste e alle telecamere. Perciò, sostanzialmente, i decisori della lista dall’inizio di marzo sono i soli Marco Revelli (che presto verrà nominato “portavoce”) e Guido Viale, accanto ai quali resta come regista operativo Massimo Torelli.

(..) A tutto ciò si aggiunge che la lista porta il nome di Tsipras ma viene percepita come acefala: non solo priva di un leader, ma proprio senza una persona di riferimento. Barbara Spinelli, su cui all’inizio alcuni puntavano come “front woman” in campagna elettorale, si tiene lontana dalla prima linea e ai pochi talk show a cui partecipa «pensa invece di parlare, quando risponde è come se scrivesse» , come dice Carlo Freccero; Revelli e Viale non sono personalità in grado di interpretare la parte dei leader e in ogni caso, non essendo candidati, vengono raramente invitati in televisione; formalmente il responsabile della lista è Massimo Torelli, che tuttavia è ignoto ai più e comunque resta dietro le quinte. Alexis Tsipras è impegnato nel suo Paese o in altri dove le liste che sostengono la sua candidatura hanno maggiori chance di successo (Francia, Spagna), quindi in Italia si fa vedere pochissimo.

Il risultato è un silenzio mediatico che tra i supporter del progetto viene vissuto come censura: ed è difficile in effetti stabilire fino a che punto il problema sia la scarsa notiziabilità della lista e dove invece cominci una deliberata volontà di ignorare un competitore elettorale del Pd da parte di un mondo editoriale molto omologato su Renzi. «Il carattere acefalo della lista è stato un difetto gigantesco», ammette Nicola Fratoianni: «Per una questione mediatica, certo: essere di sinistra significa anche avere un rapporto con la realtà e oggi la leadership è un veicolo di comunicazione fondamentale nel rapporto con i cittadini; ma anche perché l’assenza di un luogo di comando funzionante ha impedito che si definisse una direzione omogenea della lista: c’era un equilibrio instabile che teneva insieme le varie componenti della lista ma è mancata un struttura decisionale. E in campagna elettorale lo si vedeva benissimo».

(…) Il 25 maggio del 2014, comunque, la lista Tsipras “ce la fa”. Ce la fa cioè a raggiungere il risultato minimo, superando lo sbarramento del 4 per cento e ottenendo quello che Revelli chiama «un miracolo». In termini assoluti arriva poco sopra il milione e 100 mila voti: ottomila in più di quelli necessari per andare a Bruxelles. «La Fenice rinasce», esulta Sandro Medici, uno dei candidati, volto storico della sinistra a Roma. E la soddisfazione è giustificata: gli ultimi sondaggi “segreti” dei giorni immediatamente precedenti il voto erano concordi nel prevedere L’Altra Europa sotto la soglia. Sicché, dopo tante sconfitte, essere riusciti a spedire tre parlamentari a Bruxelles è considerato un successo, date anche le enormi difficoltà del percorso, l’indifferenza dei media e la scarsissima disponibilità economica (tutta la campagna è stata fatta con 250 mila euro).

Tuttavia i numeri assoluti rivelano che l’obiettivo di uscire dalla nicchia, in realtà, non è stato raggiunto: nel 2008 la Sinistra Arcobaleno, madre di tutti i fallimenti, aveva preso 100 mila voti in più; e la somma di Rivoluzione Civile e Sel alle politiche del 2013 era superiore tanto per consensi (1.850.000 voti) quanto in percentuale (5,4). A voler essere ancora più puntuti, i voti ottenuti dalla lista Tsipras nel 2014 sono solo ventimila in più di quelli presi dal marchio Sel l’anno prima.

Ed è sia per il mancato decollo del progetto sia per lo strabordante risultato del Pd che, dopo le europee, dentro Sel diventa ancora più difficile resistere alla forza calamitante del contenitore renziano: verso il quale dunque s’indirizzano alcuni di quei dirigenti e parlamentari che fin dall’inizio guardavano con diffidenza all’idea di una “Syriza italiana”, con l’effetto postelettorale di nuovi estenuanti litigi e fuoriuscite.

Dopodiché, a risultato minimo raggiunto nella lista scoppia la zuffa finale – di inusitata violenza – sull’adempimento dell’impegno preso da Barbara Spinelli a non andare a Bruxelles per lasciare posto ad altri, un proposito da lei stessa annunciato più volte in tutta la campagna elettorale: invece, una volta eletta, Spinelli decide di «rifletterci qualche giorno». Ne nasce inevitabilmente un caso gigantesco: la sua rinuncia è infatti determinante per far entrare o meno nell’europarlamento i secondi arrivati nei collegi in cui lei ha preso più preferenze, un giovane candidato di Sel (Marco Furfaro) e una di Rifondazione (Eleonora Forenza). La baruffa si colora di tonalità grottesche quando su Change.org appaiono due petizioni contrapposte (una per chiedere a Spinelli di mantenere parola e dimettersi, l’altra perché invece accetti l’elezione) e quando Revelli propone a Sel e Rifondazione di «tirare a sorte» per stabilire quale dei due partiti possa esprimere un europarlamentare.

Alla fine Spinelli sceglie di disattendere se stessa e di tenersi il seggio lasciando fuori Furfaro e adducendo come motivazione il gran numero di preferenze ricevute. Lo fa unilateralmente, con una mail da Parigi, mentre i comitati della lista stanno inutilmente discutendo in un teatro di Roma. «Una decisione presa a porte chiuse, come ai vertici di Arcore», commenta Francesca Fornario, giornalista che era stata in prima linea nell’attivismo della campagna elettorale. E poi: «Un ostinato rifiuto di ogni confronto, una mancanza di rispetto ma anche di affetto, di cura, di protezione per le relazioni umane e politiche che hanno alimentato questa impresa». Aggiunge amarissimo lo scrittore Christian Raimo: «Lo psicodramma Spinelli e l’esperienza della Lista L’Altra Europa con Tsipras sono finiti nel modo peggiore che si poteva immaginare: un suicidio mascherato da sopravvivenza. La mail da Parigi di Barbara Spinelli, dopo giorni di silenzio andropoviano, è uno dei documenti più rappresentativi della sinistra italiana, della sua incapacità a comunicare, della sua deresponsabilizzazione patologica, del suo narcisismo laschiano conclamato, del suo desiderio di morte, della sua fame saturnina». Più caustico ancora è su Facebook il blogger Massimo Sestili, che si limita a parafrasare Nanni Moretti: «Con questa società civile non vinceremo mai».

Si conclude la pubblicazione di stralci da La Diaspora. Dov’è finita la sinistra italiana”. Questo brano è tratto dal capitolo 9, “Rivoluzionari tra le stelle”

L’onorevole Davide Tripiedi, classe 1984, è nato a Desio ed è un operaio idraulico: fino al 2013 faceva impianti e sanitari nelle aziende e nelle case della Brianza. Ultima busta paga: 1.180 euro. Il padre è un ex operaio anche lui, alla Cooperativa Posatori e Selciatori di Milano; la madre infermiera all’ospedale San Gerardo di Monza; il fratello sindacalista alla Fillea Cgil. Tripiedi ha iniziato a lavorare subito dopo la terza media, come apprendista, nella stessa piccola azienda dove poi è stato assunto. «Non ho mai fatto attività politica, prima del Movimento, ma votavo Pd», racconta. «Oh: perfino alle primarie sono andato», aggiunge ridendo, come se rivelasse un buffo errore di gioventù.

«Dei Cinque stelle mi ha parlato per la prima volta un amico, raccontandomi i problemi del nostro comune: le possibili infiltrazioni mafiose, la questione dell’inceneritore, la pedemontana. Così ho iniziato ad avvicinarmi: riunioni, incontri, iniziative sul territorio. Nel 2010 mi sono candidato al comune con la lista civica Beppegrillo.it: ho preso 19 preferenze. L’anno dopo a Desio si è rivotato e ne ho presi 99, ma sempre senza essere eletto. Ho continuato a lavorare con il meet-up, a battermi con gli altri contro lo svincolo della pedemontana, per la difesa del suolo, per la partecipazione dei cittadini, con il comitato per i Beni Comuni di Monza e Brianza, fino ai referendum per l’acqua pubblica: ero tra quelli che raccoglievano firme ai banchetti». E poi? «Poi Beppe Grillo ha scritto sul blog che chiunque avesse le carte in regola poteva proporre la sua candidatura al Parlamento. Io ce le avevo, ma ho aspettato fino all’ultimo giorno utile. Ero incerto, avevo paura. Mi chiedevo: ma davvero un semplice idraulico può pensare di fare il parlamentare? Credevo che questo fosse un mondo riservato agli intellettuali. Mi ha convinto mio padre, alla fine». Quinto arrivato alle Parlamentarie del M5S con un centinaio di voti, Tripiedi viene quindi eletto alla Camera, collegio Lombardia 1: «Quando sono andato a Montecitorio per la prima volta, sono scoppiato a piangere. Ho pensato: ma allora è possibile che grazie al Movimento una persona comune arrivi qui dentro! Gente che fino al giorno prima stava nel mondo reale, quello in cui si fatica ad andare avanti, all’improvviso entrava in Parlamento. Mi sembrava un miracolo».


L’onorevole-operaio Tripiedi, aldilà di ogni autodefinizione, sembra una persona limpidamente di sinistra: e non perché nel 2002, a 16 anni, era in piazza con il papà nella manifestazione dei tre milioni al Circo Massimo contro la modifica dell’articolo 18, ma perché vede la politica come «uno strumento di inclusione dei deboli», perché la sua critica al Pd si basa sul fatto «che ha tradito i suoi ideali, è ipocrita, ai suoi elettori dice una cosa e nei palazzi ne fa un’altra». E poi: «Ma come fanno in tanti a crederci ancora? Ma come fanno le persone di sinistra a votare ancora Pd dopo la legge Fornero, dopo il fiscal compact, dopo il decreto sul lavoro voluto da Renzi e dal ministro Poletti? Ma lo vedono cosa fanno i loro rappresentanti dentro il Parlamento? Capisco l’attaccamento affettivo, specie nei più anziani, ma basterebbe che vedessero cosa fanno e che ragionassero con il cervello. E la questione morale? Vogliamo parlare della questione morale? Ecco, la sinistra per me è morta con Enrico Berlinguer». Tripiedi si definisce «più un rivoluzionario che un riformista», però aggiunge che oggi gli obiettivi di emancipazione delle persone deboli «non passano più per la lotta di classe, ma attraverso l’informazione e la partecipazione dei cittadini, che venendo a sapere come stanno realmente le cose e impegnandosi direttamente possono cambiarle: ad esempio, sui profitti mostruosi dell’economia finanziaria, sulla redistribuzione delle ricchezze, sulla precarizzazione, sullo sfruttamento, sulle devastazioni ambientali». Del sindacato pensa che sia «indispensabile», purché «sia slegato dai partiti, altrimenti diventa ipocrita come il Pd». Tra le sue priorità politiche, Tripiedi considera fondamentali «il salario minimo e il reddito di cittadinanza, perché deve finire il ricatto del lavoro, dei licenziamenti, della precarietà: lo Stato dovrebbe essere come un padre che aiuta un figlio quando si trova in difficoltà». Obiettivi, dice, da finanziare «con i tagli alle spese militari e agli sprechi della politica, con una tassazione vera della finanza, con la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, che ci costa miliardi». Alle Quirinarie del 2013 ha votato Gino Strada, perché «si impegna in cose meravigliose in giro per il mondo».

Anche Claudio Cominardi prima di diventare un onorevole pentastellato faceva l’operaio: in una officina meccanica di Castrezzato, provincia di Brescia, a pochi chilometri da Palazzolo sull’Oglio, dov’è nato nel 1981. E anche lui ha iniziato a lavorare a 15 anni, frequentando le scuole serali per arrivare al diploma: «Era durissima, ma mai fatta un’assenza, in due anni. Tornavo a casa a pezzi». Figlio di un muratore e di una casalinga, Cominardi ha iniziato a interessarsi di politica da ragazzino («mio fratello in tv guardava i cartoni animati, io i dibattiti»), avvicinandosi alle iniziative di Qui Milano Libera, l’associazione creata dal blogger Piero Ricca che invitava alle sue conferenze magistrati, giornalisti e intellettuali. Poi «un amico mi ha segnalato il blog di Grillo e ho scoperto che era una fonte di informazione inesauribile su tutto, dall’ambiente ai diritti. Nel 2007 mi sono iscritto al meet-up di Brescia». Ma, aggiunge, «non mi bastava, perché vedevo che la politica faceva troppe schifezze, bisognava impegnarsi direttamente. Allora ho iniziato a smanettare in rete per capire se vicino a casa mia c’era altra gente interessata a quello che diceva Beppe. L’ho trovata e abbiamo messo in piedi il primo meet-up a Palazzolo, poi la lista civica di cui sono stato il candidato sindaco: 463 voti, il 4,1 per cento. Un risultato eccellente, per quei tempi, per come eravamo sconosciuti. Il giorno dopo le elezioni ci siamo riuniti e ci siamo detti: bene, oggi si comincia davvero».

Prima battaglia, quella per modificare lo statuto comunale affinché l’acqua venisse definita un bene comune e inalienabile: «Grazie alle liberalizzazioni di Bersani, le bollette avevano iniziato a salire: noi andavamo di notte ad attaccare cartelli sulle fontanelle di Palazzolo con la scritta “in vendita”». E poi: «Iniziative contro il nucleare vestiti con false tute d’amianto; flash mob e sit-in per ottenere il wi-fi libero e gratuito nel parco comunale; video fatti con la telecamerina dei consigli comunali, fino a notte fonda: ovviamente dopo li mettevamo on line e il sindaco si è infuriato, mi ha chiamato perfino il maresciallo dei carabinieri per dirmi di smetterla». Infine, come per Tripiedi, sono arrivate le Parlamentarie del M5S e anche Cominardi è finito a Montecitorio. A Roma abita con altri due deputati, per dividere l’affitto; a volte nei week-end torna a Palazzolo, a volte resta nella capitale e continua a “smanettare” per informarsi sia sui temi di cui si occupa a Montecitorio (è nella Commissione lavoro con Tripiedi, da cui sembra inseparabile) sia sulla politica estera: è un fan del presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, così come gli piaceva quello venezuelano Hugo Chávez («uno che veniva dal popolo e che era vicino al popolo, nonostante quello che dice la campagna mediatica degli Stati Uniti») e continua a tifare per quello ecuadoriano Rafael Correa «che si è battuto contro le imposizioni del Fondo monetario e della Banca mondiale». Ma il vero mito per entrambi è Thomas Sankara, il “Che Guevara africano”, primo presidente del Burkina Faso ucciso nel 1987 perché si opponeva all’imperialismo americano e francese. «Io non sono contro l’economia di mercato, sono contro il neoliberismo avido che si mangia tutto, che divora la terra e le nostre vite», dice Cominardi. Per quanto riguarda il lavoro in fabbrica, pensa che il modello giusto sia quello di Adriano Olivetti, fondato sulla comunità e sull’equilibrio tra solidarietà e profitto («una cosa che la cosiddetta sinistra si è dimenticata», dice) mentre più in generale si considera un ammiratore di Serge Latouche e delle sue teorie sulla decrescita felice, perché «le risorse del pianeta non sono infinite e noi esseri umani non siamo soltanto macchine di produzione e consumo». Una battaglia mondiale di lungo termine, questa, per la quale Cominardi considera il M5S un’espressione politica simile «a Occupy Wall Street o agli Indignados spagnoli, ma con più continuità e con la presenza delle istituzioni».

Alle Quirinarie, prima di scegliere Gino Strada, Cominardi aveva proposto il nome di Silvano Agosti: regista, scrittore, autore tra l’altro di “Lettera dalla Kirgizia”: «Un libro che ho amato moltissimo», dice, perché «racconta il miracolo di un Paese a misura d’uomo, dove nessuno lavora più di tre-quattro ore al giorno, dove si è arrivati a riscoprire l’importanza del tempo dedicato alla creatività, agli affetti, insomma alla vita». Già, “liberarsi dal lavoro”: un vecchio slogan della sinistra rivoluzionaria – da Lafargue a Marcuse – che nel M5S sembra riaffiorare in una declinazione postindustriale.

Nelle parole di Davide Tripiedi così come in quelle di Claudio Cominardi è difficile non vedere un robusto e autentico idealismo. Che certamente non ha trovato risposte in quella che oggi in Italia si definisce “sinistra”, nei suoi partiti e nei suoi leader. Le ha trovate invece in Beppe Grillo, che «non ci aveva mai conosciuto eppure oggi ci ha permesso di essere qui, noi, semplici lavoratori, persone qualunque: cittadini veri che entrano in Parlamento», dice Tripiedi. «Il Pd o Sel invece portano gli operai nella politica solo quando gli servono per rastrellare voti dopo un fatto mediatico. Come Antonio Boccuzzi: un bravo collega, ma che è diventato deputato solo perché è scampato al rogo della Thyssen; o Giovanni Barozzino, che era famoso perché è stato licenziato dalla Fiat di Melfi, altrimenti adesso non sarebbe senatore. Noi invece prima non eravamo proprio nessuno». E dopo, giurano, torneranno a esserlo: «Sono solo in aspettativa», dice Tripiedi: «Finito qui, ricomincio a fare l’idraulico a Desio».

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