La lunga tradizione risalente ai Savoia lega lo strumento militare alla nostra politica estera

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Jacopo TURRI
Fonte: Limes

Una lunga tradizione risalente ai Savoia lega lo strumento militare alla nostra politica estera. Negli ultimi anni le missioni oltremare hanno segnato un recupero di credibilità del nostro paese nella fase di crisi più profonda del prestigio italiano nel mondo.

8-01.1998

1. CI FU SEMPRE DIFFERENZA FRA IL Piemonte e gli altri Stati italiani preunitari. Mentre i Ducati, la Toscana, Venezia, lo Stato della Chiesa, usavano soltanto la diplomazia, l’economia, la cultura come strumenti della propria politica internazionale i Monsu Savoia affiancarono invece sempre a tali fattori anche una politica militare tanto lucida quanto spregiudicata.


Con loro la guerra fu veramente la prosecuzione della politica con altri mezzi, come insegnava il Clausewitz. Se si esamina la travagliata storia del Piemonte, e ci si concentra in particolare sui ventidue anni della unificazione nazionale – dal 1848 al 1870 – si ha addirittura quasi l’impressione che esistano fasi della storia del piccolo regno in cui è la politica a ridursi a una momentanea continuazione della guerra con altri mezzi.


Nella concezione piemontese, che si apparenta a quella prussiana del XIX secolo al punto tale che il Piemonte è spesso definito come «la Prussia d’Italia», le Forze armate – allora soltanto Regio esercito e Regia marina – sono così sempre uno dei principali strumenti della politica estera. E non soltanto di quella, considerato quanto siano numerosi gli storici che sottolineano, sulla scia di Giorgio Rochat, l’efficacia con cui i militari furono utilizzati a fini di controllo sociale nei cinquant’anni immediatamente successivi alla proclamazione del Regno d’Italia. Soltanto uno strumento, dunque; e in tale qualità le Forze armate dovevano essere pienamente spendibili in qualsiasi momento.


Il migliore esempio di utilizzazione rimane quello, su cui i libri di storia si sono accaniti sino a farlo diventare un vero e proprio classico, della partecipazione piemontese alla guerra di Crimea. Un coinvolgimento che è utilizzato dal governo, e in particolare dal Cavour, come un vero e proprio «gettone politico» che gli consente di sedersi sullo stesso piano degli altri, pur rimanendo nano fra i giganti, al tavolo della pace europea. Il successo politico appare poi ancora più marcato allorché si considera, cosa che i nostri libri di storia non riportano o riportano di sfuggita, parzialmente e malvolentieri, che il contingente piemontese non partecipava alla guerra in piena autonomia bensì quale forza mercenaria, inquadrata nel contingente britannico e da esso almeno parzialmente stipendiata. Il che consentì ai Savoia, tanto sparagnini da dedicare alle vedove delle medaglie d’oro al valor militare soltanto «mezza giornata di pane al dì» e non una giornata intera, di incassare in pieno il dividendo politico lasciando che altri se ne accollassero i costi. Le spese in oro della spedizione furono sostenute in tal modo dalla regina Vittoria mentre il sangue fu quello sparso da un contingente decimato dai combattimenti e più che da essi dalle violentissime epidemie di colera che funestarono l’intera durata della guerra e si portarono via anche Lamarmora, il comandante in capo piemontese.


Nonostante le forti perdite, comunque, la Crimea fu una di quelle occasioni in cui le Forze armate vennero utilizzate nel quadro di una situazione che presentava probabilità di vittoria molto elevate. Un caso ben diverso da quello di buona parte delle guerre di indipendenza. Nel ’48 e nel ’49 ad esempio, il Piemonte andò pressoché da solo all’attacco dell’impero austro-ungarico. E basta guardare una carta topografica di allora per rendersi conto di quale potesse essere la immane sproporzione delle forze! Il risultato politico conseguito fu quello di trasformare la dinastia Savoia nella bandiera dell’unità d’Italia. Un risultato importante, che comunque ai reggimenti del vecchio Piemonte costò enormemente in termini di sangue e di orgoglio.


Nel ’66 invece le cose erano ben più chiare. Se si prendono le Memorie di un veterano del generale Enrico Morozzo della Rocca, anziano precettore di Vittorio Emanuele II, e si legge della sua conversazione con il re nella notte che precede la battaglia di Custoza, appare chiaro come il sovrano sia ben conscio della superiorità austriaca su un neonato esercito italiano che non ha avuto ancora il tempo di stringere i ranghi e amalgamare i contingenti toscani con quelli lombardi, i napoletani con i piemontesi. Occorre però ugualmente combattere, accettando una sconfitta quasi certa ma che ci permetterà di sedere dalla parte dei vincitori al tavolo della pace, consentendoci così di raggiungere i traguardi politici che ci prefiggevamo. Qui il calcolo si fa veramente lucido e spregiudicato. La medesima spregiudicatezza che nel 1870 ci consentirà di approfittare delle difficoltà dei francesi, gli alleati cui più dovevamo, per presentarci in forze alle frontiere dello Stato pontificio. O che, all’interno della medesima operazione, farà sì che il Santo Padre venga costantemente minacciato di un impiego della Divisione Bixio – in cui sono stati concentrati tutti i garibaldini, reduci della Repubblica romana del ’48, di Mentana e di Monterotondo, ansiosi di sistemare i conti con i papalini – qualora non si arrenda al primo attacco dimostrativo portato contro Roma dal generale Cadorna, notoriamente il più fervente cattolico del Regio esercito.


Dopo il 1870 l’utilizzazione delle Forze armate come strumento di politica si diversifica, diviene più articolato. Da un lato essa continua, nelle imprese coloniali, a tradurre la volontà in realtà attraverso l’impiego della violenza militare. Dall’altro si configura invece come strumento di dissuasione in operazioni che a volte sono soltanto nazionali ma che molto spesso coinvolgono, totalmente o parzialmente, quello che allora era conosciuto come il «consorzio delle potenze civili». Esemplari, in tale quadro, due operazioni. La prima condotta a Creta, nel decennio a cavaliere dell’inizio del secolo. Si tratta di una vera e propria operazione di peace-keeping impostata dai gendarmi del mondo del momento per riportare la quiete in un’isola travagliata da un conflitto etnico e religioso fra una minoranza turca, e quindi musulmana, che detiene il potere e una maggioranza greca, e quindi ortodossa, che vuole staccare Creta dall’impero ottomano e portarla sotto la sovranità di Atene.


È un caso esemplare, non solo perché si apparenta, sotto molti aspetti, anche se su scala ridotta, a quanto sta avvenendo oggi nella ex Jugoslavia e in particolare in Bosnia, ma anche perché è la dimostrazione di come questo tipo di operazioni si configuri sempre come un completo imprevisto. Nella fattispecie un’azione che si pensava dovesse limitarsi a uno sbarco, a uno sventolio di bandiere e a un pressoché istantaneo ripristino dell’ordine internazionale violato, finì col durare dieci anni, rivelarsi costosissima e richiedere un forte impegno politico per mantenere unita una coalizione che rischiava a ogni momento di spaccarsi. Per tacere poi del risultato finale, l’annessione di Creta alla Grecia, che fu l’esatto contrario di quanto le potenze si proponevano all’atto del loro intervento.


L’altro esempio è quello della spedizione internazionale in Cina per domare la rivolta dei boxer e soccorrere le legazioni europee, assediate a Pechino. Un’operazione che unisce violenza a diplomazia, mischia peace-enforcing e peace-keeping e stabilisce sulla Cina un controllo politico ed economico sanzionato attraverso la cessione di quei pegni territoriali che furono le Concessioni. Del nuovo assetto dell’impero cinese, e delle sue nuove relazioni con il resto del mondo, rimangono garanti le Forze armate dei vari paesi occidentali e del Giappone, che installano guarnigioni di varia entità sul territorio. La nostra, nella Concessione di Tientsin, sarà affidata ai marinai del San Marco e ammainerà la bandiera soltanto il 9 settembre del 1943, dopo la firma dell’armistizio.


Oltre che come strumento di guerra e strumento di deterrenza le Forze armate vengono poi utilizzate anche come strumento di prestigio. L’«Italietta» lo fa spesso, usando principalmente la Regia marina le cui navi possono far sventolare la bandiera in ogni angolo del mondo. Cominciano così le crociere, spesso finalizzate a scopi politici ben poco occulti, come tentare di reperire nuovi sbocchi coloniali nell’Asia insulare e in particolare dalle parti del Borneo, o installare una serie di «stazioni», cioè di basi, in pressoché tutti i paesi dell’America meridionale conferendo così respiro intercontinentale alle nostre aspirazioni. Alle crociere di presenza, di sventolio delle bandiere, si affiancano poi le imprese scientificosportive di grande risonanza, i viaggi del duca degli Abruzzi verso il polo, le sue spedizioni sul Ruwenzori. Un’attività che raggiungerà il suo apice in epoca fascista, con l’entrata in linea della Regia aeronautica. Le trasvolate di Ferrarin e De Pinedo, i record del Reparto alta velocità di Desenzano sul Garda e soprattutto la crociera del decennale di Balbo, sono tutti successi che contribuiscono a trasmet­tere al mondo un’immagine vincente del paese, tanto dal punto di vista sportivo quanto da quello tecnico. Ogni tanto, ovviamente, vi è qualche cosa che non funziona, ma il bilancio resta comunque positivo anche se casi come quello del generale Nobile inchiodato alla sua tenda rossa rischiano a volte di portare colpi gravi al prestigio nazionale.


2. Con la seconda guerra mondiale, i trattati di pace che ci amputavano della nostra dimensione d’oltremare, l’interpretazione restrittiva data alla Costituzione che limita al territorio nazionale quella difesa della patria cui la legge fondamentale del paese conferisce sacralità, l’intreccio fra Forze armate e politica dà l’impressione, per qualche tempo, di limitarsi al solo caso di una guerra per la difesa dei confini. Con l’adesione alla Nato la difesa sembra inoltre acquisire una dimensione sovranazionale, dipendere da decisioni prese altrove e condizionate da una risposta che si vuole pressoché automatica al verificarsi di determinati eventi. Lo strumento militare non sarebbe di conseguenza più strumento della politica nazionale ma soltanto un peso gettato, insieme a tanti altri, a pareggiare le bilance di un equilibrio mondiale. Si tratta di un’idea estremamente diffusa, anche all’interno di Forze armate che non si accorgono di come fedeltà alla Nato e fedeltà al proprio paese non debbano necessariamente sempre coincidere, e di come si possano verificare eventi capaci di porle in netto contrasto. È un problema che all’Italia si presenta nel 1976, allorché sembra che il Partito comunista sia destinato a effettuare il «sorpasso» e a divenire quindi il partito dominante in un’eventuale coalizione di governo. In quella occasione l’impasse che già inizia a delinearsi fra Italia e Nato viene superata grazie alle dichiarazioni di Enrico Berlinguer. Il segretario comunista afferma infatti, nel corso di una famosa intervista, come il Pci non sia intenzionato a rimettere in discussione né alleanze né sfere di influenza.


Ben prima di allora, a ben guardare, l’ininterrotta continuità del ruolo svolto dalle Forze armate come strumento della nostra politica estera era comunque emersa con piena chiarezza. La presenza militare italiana oltremare non ha in effetti conosciuto alcuna interruzione. Gli stessi trattati che ci amputano delle nostre colonie ci incaricano infatti dell’amministrazione fiduciaria della Somalia. Ciò significa che dobbiamo aiutare Mogadiscio a mettere in piedi, in soli dieci anni, un’architettura statale capace di reggersi autonomamente. È un compito che svolgiamo abbastanza bene, soprattutto nel settore delle Forze armate. Sono infatti le capacità stesse dello strumento militare, decisamente superiori a quelle degli altri settori dell’amministrazione e del tutto al livello del potenziale dei paesi vicini, che portano le Forze armate somale prima ad assumere la gestione diretta del potere con il colpo di Stato di Siad Barre, poi a dare inizio a quella serie di guerre e rivendicazioni territoriali (Gibuti dalla Francia, il Somaliland dall’Inghilterra, Socotra dallo Yemen, l’Ogaden dall’Etiopia, l’Oltregiuba dal Kenya) che finiranno con il destabilizzare il Corno d’Africa al di là di ogni ragionevole speranza di recupero.


Fino alla fine degli anni Ottanta in Somalia rimarranno comunque costantemente, a diverso titolo, nostre missioni militari. Una presenza che ha una valenza squisitamente politica. A tal punto che allorché l’ultima delle nostre missioni viene ritirata l’atto è giustamente interpretato dai movimenti ribelli come un segnale di via libera, come l’impegno che l’Italia non si adopererà ulteriormente per preservare il regime di Barre ormai agli estremi. La valenza politica delle missioni militari inviate dal governo italiano presso altri Stati è del resto sempre apparsa ben chiara. Come negli anni Venti, allorché contribuimmo a strutturare e ad addestrare le Forze armate dei paesi mitteleuropei, che nell’idea del Trattato di Versailles dovevano servire quale prima cintura di contenimento dell’espansionismo germanico. O come negli anni Trenta quando la Regia aeronautica pose le prime fondamenta dell’aeronautica militare cinese. O come negli anni Settanta e Ottanta, allorché installammo in un’isola di Malta che oscillava tra ricordi di fedeltà atlantica e tentazioni nordafricane non una ma addirittura due missioni militari. Riuscendo fra l’altro a far fare ai loro membri gli stessi lavori ma a pagarli in maniera diversa, anomalia che rischiò quasi di paralizzarle entrambe. O come infine facciamo ora in Albania, con due team, di cui quello di terra pensa soltanto alla ricostruzione del locale esercito mentre quello di mare tiene sott’occhio quel Canale d’Otranto il cui controllo risulta indispensabile per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina.


3. Missioni a parte, la nostra presenza militare oltremare non ha comunque pressoché conosciuto soste. Fin dalla fine della seconda guerra mondiale cercammo infatti di essere sempre rappresentati in tutte le operazioni delle Nazioni Unite che rivestissero un certo rilievo. Abbiamo così contribuito con nostri reparti a tutti e tre i conflitti combattuti sotto la bandiera dell’Onu. Al primo, la guerra di Corea, inviammo un ospedale da campo e circa trecento medici e infermieri. Al secondo, le operazioni per far rientrare la secessione del Katanga dal Congo ex belga, prese poi parte l’aerobrigata da trasporto di Pisa, che pagò nell’occasione il pesante scotto dei morti di Kindu. Nel terzo, quello per la liberazione del Kuwait, ci affrancammo finalmente dai ruoli logistici e per la prima volta osammo inviare truppe operative. Un reparto di Tornado, che agì in prima linea e risultò quindi più visibile, nonché una vera e propria flotta, che si limitò a contribuire al blocco ma costituì comunque il grosso della nostra partecipazione.


Le cosiddette «operazioni internazionali di polizia condotte in Kuwait sotto l’egida delle Nazioni Unite» – come recitava la terminologia ufficiale governativa che voleva assolutamente evitare i termini «conflitto» e «guerra» capaci di far scattare automatismi massimalisti di sinistre e cattolici – costituirono in ogni caso lo spartiacque per il definitivo superamento dell’interpretazione restrittiva conferita al termine «difesa della patria» utilizzato nell’ambito della nostra Costituzione. Da quel momento la difesa della patria fu un concetto chiaramente svincolato dai confini nazionali, terrestri, marittimi e aerei che essi fossero, e che poteva comprendere la proiezione di forze oltralpe e oltremare per la difesa di interessi considerati vitali per il paese. Fu una strada su cui ci muovemmo prima degli altri grandi sconfitti del secondo conflitto mondiale ma su cui comunque anche Germania e Giappone non tardarono a seguirci.


Lo scontro della coalizione internazionale contro l’Iraq chiarì infatti come nelle nuove geometrie del mondo postbipolare ci si attendesse da ogni paese una partecipazione armata al mantenimento dell’ordine internazionale commisurabile al suo rango politico. Il Giappone, che tentò per l’ultima volta in quella occasione di limitare il proprio intervento al settore economico – e che in effetti pagò circa il 20% delle spese di guerra alleate – si lamentò poi di essere stato trattato «come un registratore di cassa, e per di più come un vecchio registratore, da prendere a calci se tarda un attimo ad aprirsi». Quanto alla Germania essa fu accusata, palesemente e a gran voce, di «nascondersi dietro il dito della sua Legge fondamentale». Sia pure con un certo travaglio interno, Bonn e Tōkyō si allinearono quindi negli anni immediatamente successivi alle nuove esigenze con sortite rimaste timide per i giapponesi e che si sono invece tradotte in un costante crescendo per i tedeschi.


Oltre che nei conflitti combattuti dalle Nazioni Unite, la presenza italiana è risultata frequente anche nelle diverse missioni internazionali di osservazione o di controllo ordinate dal Palazzo di Vetro. Alcune di queste missioni sono ormai veri e propri pezzi storici, come quella di Unmogip, che ha il compito di sorvegliare una linea di tregua stabilita nel Kashmir e su cui sono attestate e si confrontano truppe indiane e pakistane dal 1949. La missione, cui partecipano sei-sette ufficiali italiani, è centrata su posti di osservazione siti a quote himalayane e si innesta su una situazione politica cui la rivolta del Kashmir indiano contro il governo centrale conferisce grande instabilità. Si tratta quindi di condizioni di obiettivo rischio, un parametro che del resto non è mai completamente assente nelle missioni delle Nazioni Unite. In effetti allorché ci si trova a dover sorvegliare l’osservanza di una tregua ciò significa che esistono un’effettiva possibilità e buone probabilità che tale tregua venga violata.


È quanto successe nel 1973, nella guerra che tanto gli israeliani quanto gli arabi considerarono una vittoria, con la differenza che gli uni la indicano come «vittoria dello Yom Kippur», gli altri quale «vittoria del Ramadan». In quell’occasione gli osservatori dell’Untso, un’altra organizzazione Onu che ancora esiste e continua a espletare il proprio compito, vennero investiti sia sul Golan che a Gerusalemme che sul Canale di Suez dagli eserciti arabi all’attacco. Ci furono parecchi morti, tra cui un italiano caduto nelle prime fasi dell’attraversamento del Canale e dello smantellamento della linea fortificata Bar Lev.


Non sono comunque soltanto osservatori isolati quelli che partecipano alle missioni delle Nazioni Unite. A volte infatti esse coinvolgono interi reparti. La Finul, la missione in corso nel Libano meridionale che è stata funestata l’estate scorsa da un incidente a un elicottero in cui abbiamo lamentato la perdita di quattro militari italiani, inquadra ad esempio un reparto dell’Aves, l’aviazione dell’esercito. Reparti più grandi, sino a livello brigata, hanno costituito poi il contributo italiano alle grandi operazioni post-Ottantanove delle Nazioni Unite. In particolare a quelle condotte nel momento in cui si cercava di imporre il cosiddetto «peace-keeping di prima generazione», vale a dire gestito in proprio dal segretario generale e dal Palazzo di Vetro e non delegato a organizzazioni regionali, come ad esempio la Nato.


In tale ambito si inquadrano sia l’azione in Mozambico che quella in Somalia. Coronata da successo la prima, concretizzatasi in un peace-keeping destinato a mantenere la pace in una situazione in cui in effetti la pace già esisteva e doveva quindi essere soltanto preservata. Disastrosa invece la seconda, pensata e strutturata come peace-keeping in un ambiente in cui invece la pace non esisteva affatto e si sarebbe di conseguenza dovuto calibrare l’azione su una necessità di peace-enforcing. Entrambe comunque chiari esempi di come forze militari e politiche nazionali risultino legate a filo doppio. Per l’Italia inoltre la Somalia si concretizza anche come una tappa di quel faticoso cammino che ci porta a riprendere coscienza di come sia possibile agire in questo settore anche in maniera autonoma. Cioè al di là, al di fuori, a volte anche contro i vincoli sanciti dalle alleanze tradizionali e quasi santificati dal trascorrere del tempo.


Per noi ciò equivale ad affrancarci, almeno parzialmente e almeno quando ciò ci fa comodo e non è pericoloso, da quel legame con gli Stati Uniti che era diventato tanto stretto da farci definire «i bulgari della Nato» e da risultare a poco a poco opprimente. Dal 1985 in poi si tratta però di un legame costellato da episodi che, se non sono di rivolta, perlomeno evidenziano un elevato livello di insofferenza. Prima Sigonella, poi la Somalia, in seguito l’Albania che – come vedremo poi – può anche in parte configurarsi come la maturazione di un’autonomia che apparentandoci alla Francia può solo dispiacere agli Stati Uniti. Infine, episodio di questi giorni, le reazioni spontanee, immediate, quasi istintive al tragico incidente di Cavalese che hanno evidenziato un’epidermica grave insofferenza a una presenza militare americana che, caso unico al mondo, nel nostro paese si è intensificata e non ridotta negli anni post-Ottantanove.


Quasi in parallelo alla presa di distanza dagli Stati Uniti è aumentata anche, dal 1980 in poi, la partecipazione dell’Italia a forze multinazionali schierate sotto bandiere diverse da quelle delle Nazioni Unite. Tutte coalitions of the willings costituite per fronteggiare situazioni particolari, ben determinate e con limiti di azione e di durata accuratamente prefissati. A cui magari partecipano anche gli Usa, ma su un piano di parità con gli altri contributori di forze e non su quel piano di preminenza loro abituale allorché si opera in ambito Onu. Sono esempi di questo tipo l’operazione in Libano nel 1982-84, la partecipazione alla Mfo (la forza di pace schierata nel Sinai), le varie operazioni condotte su differenti fronti sotto la bandiera dell’Ueo e infine il recente intervento in Albania.


Il Libano, il primo di questi casi, ci vede agire affiancati ad americani e francesi su un piano di parità, mentre gli inglesi, che hanno inviato soltanto un contingente limitatissimo, assumono una posizione più defilata. Pur nell’ambito della medesima forza multinazionale le politiche dei vari paesi rimangono però anche in questo caso ben distinte. Noi cerchiamo di materializzare sul terreno una reale equidistanza fra le varie parti in conflitto. Usa e Francia sostengono invece il presidente della Repubblica libanese in carica, Gemayel, espressione della Falange e dei cristiani maroniti. Il risultato è che ai loro contingenti non viene più riconosciuto, con tragiche conseguenze, quel ruolo di arbitri al di sopra delle parti che è indispensabile salvaguardare nelle operazioni di peace-keeping.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Completamente diverso il caso della Multinational force and observers (Mfo) che ancora oggi, schierata a cavaliere della frontiera fra Israele e l’Egitto, vigila sulla osservanza degli Accordi di Camp David. Alla Mfo noi contribuiamo in due modi, permettendo che la Direzione generale dell’organizzazione risieda a Roma e fornendole la componente navale, tre pattugliatori costieri schierati a Sharm-el-Sheikh, sulla punta meridionale del Sinai, e incaricati di mantenere la libertà di navigazione nello Stretto di Tiran, una via d’acqua che controlla il passaggio dal Golfo di Aqaba al Mar Rosso. Anche in questa operazione siamo associati su un piano di parità agli Stati Uniti che mantengono nella stessa sede un battaglione scelto di fanteria, spesso appartenente a divisioni dal nome storico, come l’82ma o la 101ma, che furono fra le prime ad aprire lo sbarco in Normandia. Ci sono poi le varie operazioni condotte sotto bandiera Ueo e che si inquadrano pressoché tutte nel tentativo svolto negli ultimi dieci anni di rivitalizzare quella Unione europea occidentale che continuava a esistere, aveva nel suo trattato costitutivo meccanismi automatici di coinvolgimento collettivo migliori di quelli della Nato ma che era stata ridotta al ruolo di «bella addormentata del bosco» dalla progressiva sparizione di una coscienza di difesa autenticamente europea. Le operazioni Ueo sono tutte operazioni navali, sia che si svolgano nel Golfo Persico o che vengano condotte in Adriatico. Al massimo esse divengono fluviali allorché si tratta di schierare battelli della Guardia di Finanza sul Danubio per verificare che l’embargo totale alla Serbia, decretato dalle Nazioni Unite, sia rispettato da Ungheria, Romania e Bulgaria. In ogni caso queste operazioni profittano delle facilità di far agire insieme, anche se sotto differente cappello, navi ed equipaggi già da lungo tempo usi a muovere e agire congiuntamente in ambito Nato.


Infine l’intervento in Albania, l’operazione Alba, che è decisamente atipica per molti dei suoi fattori e in cui l’aspetto politico e la sua assoluta prevalenza sono immediatamente rilevabili sin dal primo momento. Per l’Italia, in particolare, Alba riveste sotto più versi una spiccata originalità. Si tratta innanzi tutto della prima volta in cui siamo noi a farci promotori di una coalizione di cui ci dichiariamo disposti ad assumere la guida sul terreno. Coalizione, per di più, che deve impegnare soltanto forze molto limitate. Il cui intervento quindi deve essere calcolato con estrema accuratezza, in maniera tale che l’afflusso dei contingenti abbia luogo nel momento preciso in cui un minimo peso può essere sufficiente a far inclinare verso la stabilizzazione l’incerta bilancia politica albanese.


La coalizione poi, così come essa si forma per adesioni successive, sancisce in un certo senso la nascita in Europa di un polo meridionale. A essa aderisce infatti tutto il Sud del continente, realizzando una continuità geografica e politica dall’Atlantico all’Egeo e al Mar Nero che la stessa Nato non era mai riuscita a concretizzare. Nei ranghi convivono addirittura greci e turchi, affiancati nell’unico impegno che li veda operare insieme e vada quindi oltre i limiti della coabitazione nell’alleanza. Il fenomeno curioso non è poi soltanto il fatto che l’Italia si decida ad assumere finalmente la leadership di un’operazione autonoma. Ciò che forse è più curioso, e interessante, è che altri paesi «di lunga tradizione» come la Spagna e ancor più la Francia, siano disposti ad accettare tale leadership senza discutere. Risultato che è senza dubbio un riconoscimento per la lunga strada compiuta dalle Forze armate italiane, tese a far dimenticare attraverso i successi nelle operazioni multinazionali la sconfitta patita nell’ultima grande guerra. Sconfitta che peraltro fu del paese intero e non soltanto delle sue Forze armate: se la guerra è politica sono infatti gli Stati, e non i soldati, che perdono le guerre. Sconfitta, comunque, di cui esse accettarono di portare il peso, fungendo da capro espiatorio per un’Italia che aveva voglia di dimenticare e di dedicarsi senza remore, pesi, ricordi, rimpianti e sensi di colpa all’opera della ricostruzione.


Si tratta altresì di un riconoscimento confermato in tempi immediatamente successivi dalla classifica stilata dall’autorevole Royal United Services Institute inglese, uno fra i migliori centri di studi strategici britannici, che ha posto le nostre Forze armate al decimo posto fra quelle del mondo intero. Addirittura due posti prima delle Forze armate tedesche, il cui impiego oltre frontiera è però stato limitato sino a oggi solo alle operazioni in Somalia e nella ex Jugoslavia, e che quindi non hanno avuto modo di esprimere appieno la loro attuale potenzialità.


Quanto la forza militare continui ancora a essere importante strumento della nostra politica appare chiaro dall’esame della cartina qui pubblicata, che riporta l’attuale dislocazione di tutte le nostre forze impiegate all’estero. La gravitazione, ovviamente, è nel Mediterraneo e nelle aree contermini, che restano l’epicentro di ogni nostra azione e aspirazione. Siamo però presenti anche in altre parti del mondo, a dimostrazione di come dopo il 1989 la politica di una media potenza abbia acquistato una globalità geografica che prima forse non la caratterizzava. Dal quadro complessivo mancano poi le crociere di bandiera – una è terminata pochi mesi fa – le imprese sportive, le spedizioni scientifiche, che pure sono continuate pressoché senza interruzione anche in epoca repubblicana. Un complesso di attività che, sommandosi alle operazioni vere e proprie, ha finito col costituire un insieme di valore ed entità tali da innescare l’inizio di una presa di coscienza in un’opinione pubblica di solito molto distratta allorché si trattavano temi di interesse della difesa. Esso si è inoltre imposto all’attenzione proprio negli anni più recenti, allorché l’Italia si trovava nel cuore della crisi di rinnovamento delle proprie istituzioni. Con un’economia vacillante, una credibilità politica internazionale ridotta a zero, la forza militare italiana è così rimasta, per quasi un lustro, pressoché l’unico strumento sicuro su cui contare per lo sviluppo di una politica estera che si voleva più assertiva di quelle precedenti. In ambito internazionale, in un certo senso, sono stati quindi l’esercito, la marina e l’aeronautica che non solo hanno tenuto ma ci hanno altresì consentito di guadagnare il tempo necessario perché gli altri settori potessero ricostituirsi e riprendere a operare in piena efficienza. Non è forse questo un grosso debito contratto dall’intero sistema-paese Italia nei riguardi del suo strumento militare?

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