Fonte: Il fatto quotidiano
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LA MAGGIORANZA INVISIBILE – di EMANUELE FERRAGINA – ed. RIZZOLI
di Emanuele Ferragina
Quando si parla della crisi, molti disquisiscono sui programmi da attuare, mentre pochi, invece, s’interrogano su quale forza sociale dovrebbe spezzare le catene che ci ancorano a un sistema iniquo e inefficiente. Questo il punto di partenza de la maggioranza invisibile, questa la spinosa questione che dobbiamo affrontare se il nostro obiettivo è quello di rinnovare l’idea progressista e la Politica più in generale.
La ‘grande trasformazione’ e la particolarità del nostro sistema politico hanno contribuito nel tempo all’emergere di un gruppo sociale maggioritario: una maggioranza invisibile perché ignorata dalla politica, una maggioranza silenziosa perché incapace di riconoscersi nella sua condizione comune di svantaggio. Una maggioranza costituita da 25 milioni di persone e oltre 20 milioni di potenziali votanti (se teniamo conto che alle politiche del 2013 hanno votato ‘solamente’ 34 milioni di persone) che include: i disoccupati, i lavoratori precari, i Neet (not in education, employment, or training), i migranti (i migranti non vengono inclusi nel computo dei votanti per ovvie ragioni ma solo in quello complessivo) e i pensionati meno abbienti.
La maggioranza invisibile è un racconto collettivo che mette insieme i pezzi di un puzzle. Un puzzle costituito da quattro ‘fenomeni’ (denominati nel libro ‘grande trasformazione’ con riferimento a Karl Polanyi) che hanno largamente contribuito alla crisi attuale e all’emergere di questa forza nel campo sociale:
(1) il trionfo del neoliberismo e dell’individualismo;
(2) un processo Europeo d’integrazione monetaria che ha ignorato la dimensione sociale e politica;
(3) l’inefficienza del vecchio welfare che continua a dare in eccesso a pochi fortunati, ma non protegge la maggioranza invisibile dai nuovi rischi sociali;
(4) la cecità delle ‘forze di sinistra’ che nelle ultime due decadi hanno abbandonato i più deboli perché intrappolati dalla desueta ‘ottica lavorista’ e sedotti dal pensiero neoliberale.
La maggioranza invisibile, non si esaurisce però in una ‘semplice analisi’ dell’emergere di un ‘nuovo’ gruppo sociale, ma offre gli elementi per comprendere i primi effetti politici del suo consolidamento. Il voto alle elezioni politiche del 2013 ha portato alla prima apparizione elettorale di questo soggetto sociale, che pur non votando in modo perfettamente compatto, ha largamente sostenuto (con l’importante eccezione dei pensionati meno abbienti) il M5S. Precari e disoccupati, in particolar modo, hanno trascinato il movimento a un sorprendente risultato. Tuttavia, una parte rilevante della maggioranza invisibile, delusa dalla mancanza di progettualità politica del movimento, con la sua astensione alle elezioni Europee del 2014 ha favorito lo schiacciante successo elettorale di Renzi, capace di raccogliere quasi tutto il voto dei ‘garantiti’ (tradizionale elettorato del Pd e di Scelta Civica).
L’evoluzione dello scenario politico ci mostra due dati incontrovertibili: primo, le forze politiche che hanno dominato la Secondo Repubblica non hanno la legittimità (persa nel pantano delle politiche di austerità intraprese a partire dal 2011) per affrontare le sfide pesantissime che ci si parano davanti; secondo, il voto della maggioranza invisibile è ormai determinante in ogni contesa elettorale. Per evitare quindi di vivere una nuova ‘rivoluzione passiva’ (richiamando Gramsci), per mezzo della quale l’élite dominante frustri ancora una volta le domande dei più svantaggiati con il ‘trasformismo’ o ‘il cesarismo’, serve mobilitare la maggioranza invisibile sulla base del comune interesse alla redistribuzione. Una redistribuzione di opportunità e ricchezza da ottenere anche grazie allo sviluppo di politiche universali di protezione sociale.
Mi auguro davvero che anche da questo scarno post, che riassume velocemente solo alcuni tratti del libro, possa nascere una discussione interessante. Da troppo tempo, infatti, abbiamo smesso di interrogarci su quali siano le basi sociali del cambiamento, lasciando la parola ‘progressismo’ in mano a chi non ha fatto altro che perseguire la logica dell’austerità neoliberista (affossando il nostro paese e l’Europa). E’ solo partendo da una riflessione complessiva sulle ‘basi sociali del progressismo’ che si può cominciare a mettere in discussione un’ideologia dominante e distruttiva come quella neoliberale. Un’ideologia che, spesso senza rendersene conto, molti hanno sposato come unica alternativa possibile.
Occorre avere il coraggio di guardare al futuro avendo un rapporto equilibrato con le ideologie del passato. Quel passato che deve diventare cenere che attizza il fuoco (sa frarìa come dicono gli amici sardi e Alessandro) e non teca che preserva una reliquia. Per fare questo occorre avere il coraggio di tornare a chiamare le cose con il loro nome, e rivolgerci con onestà, anche quando sarà difficile, a chi avrebbe tutto l’interesse ad ascoltarci. La maggioranza invisibile cui questo articolo (ed il libro) è dedicato.
Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.
Eduardo Galeano, Finestra sull’utopia
Prologo
Negli anni, la piccola città è divenuta metropoli. Un caos disorganizzato di quartieri, strade, voci evite. Un pianificatore attento lo aveva fatto notare al sindaco: non si poteva andare avanti in quellamaniera. Cemento gettato a destra e a manca sulle splendide colline, dove in un’altra vita il pensiero poteva vagare tra ulivi e pini secolari. Cemento riversato sulla città che, pur piena di meraviglie, non lasciava più lo spazio – fisico e mentale – per porsi delle domande…
Questo libro nasce dall’insoddisfazione degli abitanti della «città». Un’insoddisfazione profonda verso chi propone ricette semplici, senza riflettere sul contesto sociale nel quale esse andrebbero effettivamente attuate. Un’insoddisfazione verso accademici, giornalisti e, in ultima istanza, verso il nostro stesso lavoro di ricerca, al quale dedichiamo energie e sforzi. Se vi soffermate sul dibattito pubblico italiano in merito alla crisi, vi accorgerete che tutti, o quasi, disquisiscono con dovizia di particolari sui programmi da attuare (giusti o sbagliati che essi siano); pochi s’interrogano, invece, sul vero problema: come attivare una forza sociale capace di scardinare l’iniquità del sistema, capace di rivoltare la «città» come un calzino, tenendo conto dei bisogni della maggioranza degli abitanti. Certo è importante illustrare l’effetto potenziale di politiche ben calibrate, che potrebbero risollevare il paese e l’intero continente, ma non basta. Serve, anche e soprattutto, guardare alla natura delle forze sociali in campo, e in particolare a quelle che possono far soffiare il vento del cambiamento.
Quest’insoddisfazione si è materializzata chiaramente guardando oltre i confini del nostro paese. Soprattutto confrontandoci con scrittori che, in altri contesti, hanno dedicato la vita a interpretare e raccontare la possibilità di muovere in una nuova direzione, partendo dal basso, dai più deboli e svantaggiati. Eduardo Galeano ha posto l’accento sull’importanza di difendere la parola contro la cecità. (L’intero Prologo è ispirato ai temi discussi dallo scrittore uruguaiano. Approfondimento: E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina)
Per noi, oggi, in Italia, difendere la parola significa formulare un racconto collettivo che aiuti la «maggioranza invisibile» – quei 25 milioni di cittadini che stentano a riconoscersi come gruppo sociale svantaggiato – a mettere insieme i pezzi di un puzzle. Un puzzle bifronte, che rivela da un lato la connessione tra i vari fenomeni socioeconomici che attraversano il paese, e dall’altro la forza potenziale di questa stessa maggioranza dimenticata.
Un racconto collettivo animato da parole ormai cancellate dal dibattito pubblico, perché associate a una cultura considerata fallimentare e fuori dal tempo, e da altre che ben descrivono il contesto economico e sociale nel quale siamo immersi. Parole dal sapore antico, come «redistribuzione», «classe», «conflitto sociale», «egemonia», «rivoluzione passiva» e «internazionalismo». Parole dal sapore nuovo, come «egualitarismo efficiente», «neoliberismo selettivo», «universalismo», «dogma lavorista», «reddito minimo» e «produttività sociale». Parole che utilizzeremo in questo libro, senza nostalgia per i tempi andati, senza rimpianti per le grandi ideologie, ma piuttosto perché esse interpretano il bisogno di formulare un nuovo pensiero progressista. Un pensiero che ponga la maggioranza invisibile e i suoi interessi al centro, in contrapposizione a garantiti e neoliberisti: due gruppi che hanno dominato la vita sociale del paese senza tenere conto dei bisogni della maggioranza degli italiani, all’insegna della disuguaglianza e dell’inefficienza. In questo contesto, esprimiamo la necessità di entrare in contatto direttamente con la maggioranza invisibile, senza filtri, senza false ipocrisie, senza la prudenza ruffiana di chi si rivolge supplicante al potere costituito. Entrare in contatto per denunciare le tante cose che non vanno, per mettere in risalto gli interessi comuni che dovrebbero aggregarla nel lungo periodo, per sottolineare con decisione i suoi punti di forza sottovalutati.
Le motivazioni che portano a scrivere sono di varia natura. Gli scrittori sono spesso mossi dai peggiori istinti: vanità, presunzione di avere un messaggio da diffondere a tutti i costi, narcisismo. Scriviamo per lenire i momenti di solitudine, nostri o degli altri. Scriviamo perché assumiamo, a torto o a ragione, che tale attività trasmetta conoscenza, che essa impatti su comportamenti e linguaggi di chi ci legge. Tuttavia, alla base della passione per la scrittura c’è un mistero. (Come sottolineato da Orwell nel saggio Perché scrivo, cui questo paragrafo fa riferimento. Approfondimento: G. Orwell, Nel ventre della balena)
Pubblicare un libro, sottoporsi al giudizio dei lettori, è una fatica che priva di ogni energia. Nessuno si cimenterebbe in questo sforzo se non ci fosse una forza interna a sospingerlo. Una forza che non si può comprendere pienamente, e alla quale non si può resistere. Ma se non possiamo definire con certezza la motivazione più pressante che porta alla scrittura, sicuramente conosciamo la spinta che per noi meritava di essere seguita: la volontà di proporre un’analisi che renda giustizia alla maggioranza dimenticata degli italiani.
Certo questa motivazione, seppur nobile, genera un paradosso: una scrittura fatta a uso e consumo dei più svantaggiati difficilmente potrà raggiungerli. I motivi sono tanti: tali persone sono spesso quelle che leggono meno, le peggio integrate nel tessuto sociale, le più condizionate dai messaggi lanciati dai governanti (anche quando essi hanno il solo scopo di favorire chi sta meglio), le più disilluse e quindi meno pronte a recepire un racconto che chiede loro, ancora una volta, uno sforzo senza sicurezza di ricompensa. Lo sforzo di combattere contro un sistema iniquo, pur non sapendo se riusciranno ad abbatterlo o quantomeno a modificarlo in loro favore.
Ma allora possiamo davvero coltivare l’ambizione di usare la scrittura per comunicare con la maggioranza invisibile? Possiamo sul serio sperare di far passare un messaggio razionale e idealista in una società sempre più sorda, muta e individualista? Oppure la piccola libertà, lo svago che ci viene concesso nel pubblicare questo libro, si riduce semplicemente alla prova del nostro fallimento? Non abbiamo risposte certe. Sappiamo solo che, al di là di simili ostacoli, ad animare i lunghi mesi di lavoro è stata la stessa speranza che continua a spingere chiunque insista a stare al fianco dei più deboli, in «direzione ostinata e contraria» rispetto all’ideologia dominante. La speranza di essere abbastanza credibili da entrare in contatto con l’altro sulla base di un proposito onesto: narrare la realtà con occhi nuovi, mettendoci dentro il meglio di noi stessi, di quello che abbiamo studiato, di quello in cui crediamo.


