Fonte: La Stampa
La nascita di Israele è una storia coloniale accettarlo è doloroso ma serve alla pace
Il libro dello studioso di origine palestinese Rashid Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, ci racconta la storia di questo secolare conflitto visto dalla parte dei palestinesi. Khalidi, la cui famiglia apparteneva agli strati più elevati dell’élite palestinese, è nato nel 1948 a New York City, dove suo padre era un alto funzionario dell’Onu. Un suo pro-prozio era stato un importante funzionario sotto il governo ottomano, a lungo sindaco di Gerusalemme. Studioso di rilievo, docente all’università di Chicago e alla Columbia, Rashid Khalidi è stato anche attivamente coinvolto nelle vicende politiche: era a Beirut durante la guerra del Libano del 1982, e ha partecipato attivamente alle trattative tra palestinesi e israeliani a Madrid e a Washington.

In questo libro, Khalidi fa ampio uso tanto dei documenti pubblici che delle memorie famigliari oltre che della sua stessa esperienza politica. Ne risulta una scrittura affascinante in cui l’uso rigoroso delle fonti documentarie si mescola con quello delle memorie famigliari e personali.
Il filo rosso che percorre il libro, che caratterizza la storia secolare del conflitto, è il “colonialismo”. Tutta la storia del conflitto, dalla nascita del sionismo ad oggi, è infatti analizzata nell’ottica coloniale. Come già per Edward Said, il grande studioso autore di “Orientalismo”, quella della nascita di Israele è per Khalidi una storia coloniale, sia pure di un colonialismo diverso da quello che ha caratterizzato le potenze europee nei secoli XIX e XX. Quello “di insediamento”, caratterizzato dall’insediamento di coloni e dall’espulsione più o meno ampia dei precedenti abitanti.
L’analisi in chiave coloniale dell’intera storia di Israele è così il filo rosso del libro. Altri studiosi, dando maggior rilievo agli elementi di rinascita nazionale presenti inizialmente nel sionismo, fanno invece risalire la caratterizzazione coloniale ad anni più recenti, il 1948 con la Naqba (la cacciata dei palestinesi con la guerra) o il 1967 con l’inizio dell’occupazione. Comunque lo si voglia interpretare, questo del colonialismo resta un tema su cui nessuno studioso serio può fare a meno di soffermarsi e su cui il libro di Khalidi apre una discussione importante e, credo, necessaria. Questa coloniale non è, vorrei sottolinearlo, un’interpretazione adottata solo dalla storiografia palestinese, ma da molti studiosi israeliani e americani, la maggior parte dei quali ebrei. Inoltre, lungi dal trarre dall’etichetta coloniale la conseguenza della necessità di distruggere lo Stato di Israele, Khalidi immagina scenari per il futuro che non sono molto diversi da quelli di una buona parte degli studiosi post-sionisti israeliani, sostenitori di un’Israele che non sia più lo Stato degli ebrei, ma uno Stato democratico in cui tutti, ebrei e non ebrei, godano degli stessi diritti.
Decisa è anche, nel libro, la valutazione negativa della cosiddetta stagione di Oslo, le trattative fra israeliani e palestinesi che dalla conferenza di Madrid a quella del 2000 di New York hanno portato al fallimento della nascita di uno Stato, ai cui negoziati pure Khalidi aveva partecipato. Particolarmente netto il giudizio negativo sugli accordi di Oslo e sull’incapacità di negoziare dei vecchi dirigenti dell’OLP, troppo a lungo lontani dalla situazione reale della Palestina.
Infatti Khalidi non si limita a condannare in maniera netta la politica israeliana, che vede in tutta la sua storia politica, sia con i governi laburisti che con quelli del Likud, come volta a creare uno Stato fondato sull’oppressione dei palestinesi, e nella cui volontà di pacificazione non crede. La sua critica, in molti casi durissima, è anche rivolta alle organizzazioni palestinesi, tanto l’OLP che Hamas, che vede oscillare fra l’incapacità di darsi dei progetti politici e la scelta del terrorismo e della violenza. Questa scelta, scrive, «oltre a sollevare gravi questioni legali e morali e a privare i palestinesi di un’immagine mediatica positiva, a livello tattico si è dimostrata enormemente controproducente».
In quest’ottica, nessuna indulgenza per il 7 ottobre nella postfazione al libro, scritta nella primavera del 2024 (mentre il testo si fermava al 2019). La lettura del secolo di guerra, una guerra sempre per lui asimmetrica, in cui i palestinesi sono sempre visti come i più deboli tra i due contendenti, non lo spinge a giustificare il terribile attacco terroristico del 7 ottobre, ma piuttosto a riflettere sulle possibilità che si aprono anche dopo questa data. Il trauma collettivo seguito in Israele al 7 ottobre ha portato ad esacerbare le attitudini verso i palestinesi della società israeliana, spingendone molta parte a sostenere il governo di estrema destra, afferma. Una nuova fase è iniziata, particolarmente letale e distruttiva, in cui tuttavia si riconoscono ancora le tracce della storia precedente. La pace che Khalidi auspica, anche se la vede sempre più allontanarsi nel tempo, è «una pace fondata sull’ammissione delle dolorose realtà storiche e sullo smantellamento delle strutture di oppressione, basata sulla giustizia, sulla parità di diritti e sul riconoscimento reciproco». Uno scenario su cui anche gli israeliani che si oppongono a questa guerra e a questo governo non possono che concordare.


