Fonte: L_Antonio
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intervista a Stefano Fassina a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta – 25 luglio 2017
Oggi L_Antonio intervista Stefano Fassina. I due temi caldi dell’intervista sono l’unità della sinistra e il governo di Roma. In entrambi i casi Fassina invoca la responsabilità politica, da una parte contro chi sottostima la deriva dell’auto-sufficienza, dall’altra per ridare al ‘pubblico’ la forza e le risorse per rigenerare la Capitale d’Italia. L’obiettivo generale è ridare voce alle periferie sociali ed ‘esistenziali’ del nostro Paese, a chi non vota, a chi non apprezza le facili soluzioni demagogiche proposte da taluni.
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“Il Brancaccio e SS Apostoli hanno avviato percorsi distinti che dobbiamo far convergere. Le differenze tra di noi e dentro di noi esistono ma, attraverso meccanismi partecipativi estesi, si può però convergere su un programma ambizioso e classi dirigenti adeguate. La sfida è ridare voce e presenza politica a chi, spiaggiato da regressione economica e sociale, è stato abbandonato.
L’unità della sinistra serve per dare voce a chi si è sentito abbandonato nei valori e nella condizione sociale, ed è evidente che un progetto politico unitario si definisce insieme. Le parole e i comportamenti di alcuni protagonisti sottostimano pericolosamente la deriva inerziale dell’auto-sufficienza. Il punto è trovare programmi e valori che tornino a rappresentare quel popolo di sinistra che o non vota o non apprezza la deriva demagogica di alcune forze.
La cura thatcheriana riproposta dai Radicali non funziona. Non ho pregiudizi ideologici sulle liberalizzazioni. Ho giudizi fondati su dati empirici. Dov’è che la liberalizzazione dei servizi a rete ha funzionato? Ma perché il pubblico non potrebbe definire una strategia per la mobilità di qualità e trovare manager capaci? Invocare la liberalizzazione è una comoda via per scansare le responsabilità della politica.
Ci sono nodi strutturali che inibiscono la rinascita di Roma: il debito capitolino e l’assetto istituzionale della capitale e della sua area metropolitana. I drammatici problemi strutturali di Roma sono una questione nazionale. Senza interventi su quei due nodi, nessuno può rigenerare Roma”.
(Stefano Fassina)
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Stefano Fassina, per fare l’unità a sinistra, quella vera, non solo un provvisorio listone elettorale, cosa serve? Può bastare ‘aprire un tavolo’? Ma non è che sono proprio i contenuti a dividere: Europa, immigrazione, crescita, per dirne alcuni?
L’assemblea del 18 Giugno al Teatro Brancaccio e la manifestazione a Piazza SS Apostoli il 1 Luglio hanno avviato percorsi distinti che dobbiamo far convergere. La pluralità delle culture politiche in campo è evidente. La lettura del trentennio alle nostre spalle differisce. Le priorità da affrontare coincidono soltanto in parte. Ma le differenze attraversano ciascuna delle platee e sono di gran lunga prevalenti gli elementi trasversali condivisi. Lo confermano, da ultimo, le parole di Giuliano Pisapia sui diritti di lavoratrici e lavoratori, sul contrasto alla disuguaglianza, sulla tassazione dei patrimoni, sulla sostenibilità ambientale. È evidente quindi, le differenze tra di noi e dentro di noi esistono: sulla declinazione del nesso Italia-eurozona-Unione europea; sulla regolazione dei mercati interni e internazionali; sui limiti ai diritti individuali. Attraverso meccanismi partecipativi estesi si può, però, convergere su un programma ambizioso e classi dirigenti adeguate. La sfida non è superare la soglia del 5% per sistemare uno ‘spicchietto’ di ceto politico. La sfida è ridare voce e presenza politica a chi, spiaggiato da regressione economica e sociale, è stato abbandonato.
Non trova che bisognerebbe prendere atto che la sinistra in questo Paese è stata sconfitta, anche culturalmente? Tutta, non solo una parte di essa? E che oggi è confinata nello spazio di poche percentuali di punto? Senza questa presa d’atto, e l’umiltà necessaria che ne dovrebbe derivare, non c’è il rischio di perdere ancora?
Purtroppo è un rischio reale. Le parole e i comportamenti di alcuni protagonisti sottostimano pericolosamente la deriva inerziale dell’auto-sufficienza. Sarebbe una sciagura: non per il ceto politico eventualmente condannato sotto soglia elettorale, ma per quel popolo delle “periferie esistenziali” che vorremmo tornare a rappresentare e a soddisfare. Non soltanto rappresentare. Anche soddisfare.
Il PD renziano non è nei suoi giorni migliori. Nonostante la scissione e le primarie vinte da Renzi, al suo interno c’è ancora movimento. Bisogna considerare quel partito ormai perduto, o ci si può ancora lavorare? Per capirci, quando si dice unità della sinistra, Cuperlo, Orlando, Damiano, Miccoli vanno esclusi a priori, oppure il discorso deve essere più ampio dello spazio a sinistra del PD?
L’unità della sinistra serve per dare voce a chi si è sentito abbandonato nei valori e nella condizione sociale, non è tema da soddisfare tra ceto politico quindi. Inoltre forse è arrivato il momento di dire con chiarezza che la politica non è personalismi, ma guardare attentamente alla condivisioni di valori e di analisi e cosa ha portato ad un impoverimento della gente. Sono benvenuti tutti quelli che da anni sono impegnati alla costruzione di una proposta politica per la democrazia costituzionale, la dignità del lavoro, la giustizia sociale e la sostenibilità ambientale. È evidente che un progetto politico unitario si definisce insieme.
Ma insomma, Pisapia è il vero ostacolo per l’unità a sinistra, una specie di agente della reazione, oppure siamo noi che vediamo soprattutto le persone e sempre meno i contenuti concreti di una discussione, la fase in corso, il contesto attorno, le priorità, le forze in campo? Queste ‘personalizzazioni’ sono un retaggio renziano, sono il segno che il renzismo ha lasciato dei segni indelebili in tutti noi?
È positivo e promettente il riconoscimento da parte di Campo Progressista dell’impraticabilità del rapporto con il Pd. È evidente che un progetto politico unitario si definisce insieme. Insieme ai Comitati per il No alla revisione costituzionale, insieme alla Rete delle liste unitarie e di alternativa attive in centinaia di città, insieme a tante energie del volontariato e della società civile. In ogni caso, per dare credibilità al percorso politico, è necessaria la partecipazione democratica piena, quindi primarie per il programma e la leadership nazionale e primarie per le candidature. Renzi non ha lasciato segni indelebili in tutti noi, perché molte voci autorevoli ora si levano contro la personalizzazione della politica, ma ripeto il punto è trovare programmi e valori che tornino a rappresentare quel popolo di sinistra che o non vota o non apprezza la deriva demagogica di alcune forze, come sta succedendo in tutta Europa, anzi nel mondo se pensiamo a Trump.
Lei dice che la crisi della democrazia è essenzialmente una crisi di efficacia, e non di rappresentanza. Non pensa che così si scivoli verso una concezione ‘tecnica’ della democrazia stessa? Perdendo di vista il suo carattere politico, sociale, culturale, e quindi di rappresentanza di popoli e contesti sociali? E, a proposito di ciò, non pensa che alcune forze politiche emergenti, emergano proprio dalla fine della politica come mediazione e conflitto nello stesso tempo? E che esse si propongano come risolutrici di problemi, proponendo un modello di democrazia meramente più efficace, più risolutivo, ‘tecnicamente’ migliore della democrazia dei partiti?
Attenzione a insistere sulla lettura della “crisi della democrazia” come crisi di rappresentanza. Non è così. Crisi della democrazia è essenzialmente crisi di efficacia, dovuta allo smantellamento, senza alternative adeguate, degli strumenti nazionali faticosamente costruiti nel ‘900, in particolare dal movimento operaio e dalle forze progressiste. In tale quadro, la separazione tra i frammenti “a sinistra” del Pd certificherebbe l’irrilevanza politica di ciascuno. Perché chi è in difficoltà cerca risposte efficaci.
A proposito, i radicali propongono, d’intesa con una parte del PD, un referendum contro il monopolio ATAC nel trasporto pubblico. Lei è d’accordo? Lei pensa che lo spazio del pubblico debba ridursi? Sarebbe una soluzione ‘efficace’?
Atac non funziona. Atac ha un parco mezzi preistorico. Atac ha accumulato 1,1 miliardi di euro di debiti. È innegabile. Non intendiamo difendere lo status quo. Non vogliamo coprire manager incapaci, inefficienze, corruzione. Non vogliamo essere conniventi con quella parte del variegato universo sindacale legata a rendite insostenibili a carico dei cittadini. Al contrario, vogliamo sbaraccare clientele e parassitismi. Il punto è come. La cura thatcheriana riproposta dai Radicali non funziona. Non ho pregiudizi ideologici sulle liberalizzazioni. Ho giudizi fondati su dati empirici. Dov’è che la liberalizzazione dei servizi a rete ha funzionato? Dove l’hanno attuata intensamente, come in UK e in particolare a Londra, fanno marcia indietro perché il risultato è stato pessimo: aumento delle tariffe, carenza di investimenti e peggioramento della qualità dei servizi. Lo stesso risultato che, dati dei bilanci alla mano, caratterizza Acea. O, per rimanere in tema, “Roma Tpl”. Ma perché il pubblico non potrebbe definire una strategia per la mobilità di qualità e trovare manager capaci? Perché, a Milano Atm e MM funzionano e a Roma Atac non può funzionare? Sottolineo che dove il pubblico fallisce come gestore, fallisce anche come regolatore, perché regolare è più difficile che gestire. Insomma, invocare la liberalizzazione è una comoda via per scansare le responsabilità della politica.
Secondo lei, oggi, c’è qualcuno che abbia un’idea di Roma, tale che possa ispirare un indirizzo di governo locale che parli anche alle periferie (esistenziali o meno)? E se potesse descrivere la sua, quale potrebbe essere questa idea? In questo primo anno di Giunta Raggi, lei questa idea della città l’ha scorta oppure ha l’impressione che si proceda ancora a piccoli passi?
La Sindaca Raggi, nella sua conferenza stampa per il bilancio del primo anno di attività, ha perso una buona occasione. Invece che illustrare le ragioni del ritardo della rivoluzione comunque in arrivo, avrebbe dovuto evidenziare all’Italia i nodi strutturali che inibiscono la rinascita di Roma: il debito capitolino e l’assetto istituzionale della capitale e della sua area metropolitana. Avrebbe dovuto proporre al Governo al Parlamento e alla Regione Lazio di intervenire per consentire a Cassa Depositi e Prestiti di ristrutturare i mutui al 5% del Comune che assorbono 300 milioni di interessi all’anno e determinano l’Irpef più elevata d’Italia. Avrebbe dovuto proporre di trasformare i Municipi in Comuni con relativi poteri e risorse e la ridefinizione delle competenze della città metropolitana e l’elezione diretta dei suoi amministratori. Insomma, senza fuga dalle proprie responsabilità, avrebbe dovuto porre i drammatici problemi strutturali di Roma come questione nazionale. Senza interventi sui due nodi strutturali ricordati, nessuno può rigenerare Roma.
Domandone finale: cosa legge oltre ai trattati di economia? E come è possibile essere del Torino a Roma, con tutto il rispetto?
Prevalentemente leggo saggi, mi piacciono anche le biografie e poi ho fatto la scoperta della nuova letteratura per infanzia insieme ai miei figli. Mi definirei più sportivo che tifoso, comunque non mi sottraggo alla risposta. Tifo Torino perché da bambino mi appassionai alle vicende del grande Toro.
(a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta)


