di Lillo Colaleo 25 marzo 2015
La Storia ha un non so ché di tragicomico nella sua lunga evoluzione, nella sua elaborazione formale e sostanziale. Presenta, quasi puntualmente, aspetti ricorrenti, se non ossessivi, per ogni epoca, dimostrando che probabilmente, al di là della estenuante ed attuale corsa al presente, più di ogni altro aspetto è quello donato dal pensiero il lascito più significativo, il quale successivamente si incrosta nella fantasia e dunque nelle menti di milioni di persone.
Ed è curioso che continuiamo a tenere la speranza di aver un momento dove riabbracciare il filo del racconto, proprio per i tempi che corrono, che sono infastiditi, se non apertamente ostili, ad un modo di pensare che non dico consideri normale, ma quantomeno consideri possibile l’idea della profondità storica. Ed è curioso, sulla falsariga delle frasi sconsiderate che si sentono in questi giorni, che si ricorra ai manzoniani personaggi dei Promessi Sposi per costruire una allegorica, ma neanche tanto, e poi anche relativamente breve, analisi su alcuni aspetti generali della condizione politica attuale.
Vedete la cosa che consegue al fatto che non vi sia una profondità storica nella coscienza collettiva, cioè che non vi sia un’idea di cosa sia lo ieri, l’oggi ed il domani, cosa vi sia passato di mezzo, e dunque che non vi siano conseguenzialmente gli strumenti culturali per leggere e comprendere – non tanto capire ma proprio comprendere – la realtà, fa sì che si proceda, nel dibattito tanto delle classi popolari, quanto delle classi cosiddette elitarie, per tentativi, per argomentazioni tanto sensazionalistiche, quanto prive di sostanza e figuriamoci di solidità nel tempo. Il ragionamento in fondo è che vada bene tutto purché faccia effetto, proprio perché tutto è astrattamente collocabile, un volta distrutto ogni punto di riferimento, in uno spazio indefinito.
Il rumore molesto, sostanziato da affermazioni d’ogni genere, che è seguito al dibattito di sabato 21 Marzo, titolato “A sinistra del PD” – il cui nome, se me lo si lascia passare è già di per sé un programma, in quanto indica solamente l’esistenza di uno spazio, senza suggerire, magari nel sottotitolo, come quello spazio lo si vuole occupare – ha posto il suggello sul fatto che anche quel mondo – il nostro mondo – che aveva sempre dimostrato una certa capacità di analisi, una certa capacità di elaborazione, per lunghissimo tempo egemone nel nostro paese, si sia ritrovato ad essere ostinatamente spaesato in un società che è ragionevolmente in continua evoluzione verso scenari che non sono mai prestabiliti. Ma determinati in gran parte anche dall’Uomo.
Ed è qui che entra in gioco il Manzoni. Ricordate di Don Ferrante? Il marito di Donna Prassede, uomo di grande cultura, è un grande studioso erudito in tantissimi argomenti dello scibile umano. Ora, la classe dirigente che ha lungamente rappresentato la sinistra, condotto un’opera laboriosa di alfabetizzazione di massa, quello che una volta era detto l’intellettuale collettivo, ha sempre mostrato una preparazione molto alta, una certa di capacità di pensare il mondo in termini concettuali. Tuttavia, in tutto questo, che è indubbiamente vero, c’è un però. E questa chiosa si concentra sull’incapacità, almeno a partire di una data epoca – che possiamo identificare con la fine degli anni ottanta? E’ difficile da dire perché lì ci sono anche momenti e momenti storici – di riuscire a costruire una reale visione del mondo che risulti veramente antitetica a quello che viene comunemente definito il pensiero unico, alla quale sono, per comodità o convinzione, devoti in molti. Per dirla con le parole di un grande studioso, il Lipari, che certo si riferiva ad altro, ma che ho trovato parecchio adatto come discorso, noi, quelli del nostro mondo, il mondo della c.d. Sinistra, “siamo spesso vittime della sindrome che definirei di Don Ferrante che, come sapete, era aduso a classificare l’esperienza secondo un quadro di categorie predefinite con il rischio di non riuscire a decifrare ed intendere sopravvenienze che a quelle categorie non gli sembravano riconducibili”.
Ora, su un punto cerchiamo di capirci. La politica non deve sostituirsi ai giornali, e viceversa. L’impressione è che il chiacchiericcio che si sia formato in questi giorni sia un chiacchiericcio da bar. Tutti commentano. Tutti alla ricerca di un posto da prendere sui giornali. Un rumore continuo, assordante. E soprattutto inutile, per quanto sia indubbiamente di cuore. O meglio almeno si spera che sia almeno questo.
La sostanza, però, del problema è un’altra, se non vogliamo continuare a dimenarci nell’impotenza, nell’impossibilità, nel chiacchiericcio inutile e rumoroso. E la differenza sta negli strumenti culturali: ed è quello lo sforzo politico che quel mondo, il nostro mondo, il mondo della Sinistra deve fare. Perché sarebbe altresì impensabile continuare a ragionare con le categorie dello stato nazionale ottocentesco, continuare a ragionare in termini di un mondo che si ritiene già per presunzione conosciuto, e dalla quale, sempre per presunzione, ci si ritiene di dover essere senza dubbio riconosciuti. Laddove non è così.
Il “cedimento culturale” sta in questo. Nell’aver abiurato l’idea di poter avere una visione complessiva che miri non ad un vuoto “cambiamento”, parola di per sé molto povera, ma ad un’idea di “trasformazione” di questo “terribile mondo”, che guardi all’Uomo, lo rimetta al centro, nel racconto della storia umana. Ed è solo sulla base di questo, in quanto costituirebbe una forte discontinuità anzitutto culturale, che si può pensare che vi possa essere da parte degli altri un riconoscimento sociale e politico. Altrimenti, per quel che vale, tanto meglio restarci dove siamo. Destinati all’evanescenza, acconsenzienti e complici di un percorso di asservimento della democrazia popolare alle tecnocrazie ed ai grandi centri del potere finanziario-capitalistico, che hanno ormai raggiunto un carattere talmente ampio, talmente forte, talmente sovranazionale, da aver assorbito e svuotato di ogni significato le strutture sociali del mondo che conosciamo e sulla base delle cui regole pretendiamo pure di voler combattere. Ed è un tema che non che può interessere tutti, quel famoso 99%, che da questo stretto club, quello del potere, del potere reale, risulta poi essere indubbiamente escluso. Un tema che ci costringe a ripensare noi, ripensare le nostre categorie, per tornare a costruire grandi elaborazioni politiche, capaci di decifrare e comprendere la realtà che ci sta attorno. Questo il punto, non ve ne sono degli altri.
Anche perché altre strade, altre vie, non esistono, in quanto le altre strade si limitano nel misero tentativo, diciamo, di limitare i danni. E l’effetto di ciò non può essere che essere un effetto di natura di per sé rimediale. Aggiusta un po’ là, aggiusto un po’ qua. E mentre Don Ferrante chiude gli occhi e grida che la peste non esiste, continuando a ripetere, come un mantra, le sue più intime convinzioni, quelle che con cui si è formato e che ha visto nella sua prima giovinezza, abbiamo altre figure che seguono la via del rimedio comodo, del rimedio felice. L’Azzecca-garbugli, per esempio. Ma potremmo citarne altre, perché potremmo trovare e collocare ogni protagonista del nostro tempo presso un personaggio di manzoniana memoria. Di tutte le forze politiche, perché è un problema di natura collettiva. Ci troveremmo dinnanzi ad un manipoli di Bravi, ci sarà il Griso, una miriade di Don Abbondio – pronti sempre a salvarsi le pelle, gli innumerevoli Antonio Ferrer, capaci di dir la qualsiasi, qualche altro Don questo, Don quello, Conte-Zio, padre e figlio, che sopravvivono ogni stagione adattandosi all’ordine costituito corrente, fino a raggiungere il club degli Innominati che nel nostro racconto, a dirla tutta, sono quelli che si pentono mai.
Ora, non serve tirarla per le lunghe. Ma senza strumenti culturali che partano da una reale analisi politica e reale attività politica nel territorio non si va da nessuna parte. Bisogna tornare ad aver l’ambizione di trasformare il mondo, l’ambizione di volerlo seriamente governare, sulla scia di un nuovo umanesimo sociale. E non limitarsi a farsi governare da esso, negando che vi sia una spettro che ci sta conducendo verso la deriva e che sta nella forza straripante del Capitale internazionale, credendo ancora di essere in un contesto di mezzo secolo fa, con borghesia, elite, ceti rampanti, ceti popolari, nell’ambito di realtà nazionali, utilizzando sempre le stesse ormai consunte parole d’ordine.
Sull’orizzonte c’è la peste. Ed furia di negarla, ricordiamoci che alla fine Don Ferrante non sopravvive. Don Ferrante muore.